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Joachim Schulte, Coro e legge. Wittgenstein e il suo contesto

 

 

 

recensione di Marco Di Michele

 

Una delle novità più salienti del ritorno di Wittgenstein alla filosofia, nel 1930, è il fatto che dichiari di possedere un nuovo metodo, che consiste nel mettere in ordine le nostre nozioni così come si mette in ordine una stanza, cioè toccando «ogni cosa una dozzina di volte» (Wittgenstein’s Lectures, Cambridge, 1930-32, a cura di D. Lee, Blackwell, Oxford, p. 43). Benché non si voglia raggiungere ‘l’ordine’, ciò che conta è che esso ci dia una visione perspicua del (falso) problema, che ci angustia. Questo tipo di tecnica, afferma Wittgenstein, viene mutuata da Goethe, dal suo metodo morfologico, ed è da qui che parte l’analisi di J. Schulte.

Autore versato nei temi wittgensteiniani, in particolare su quelli riguardanti i concetti psicologici, è stato anche curatore di edizioni critiche delle opere più rappresentative del filosofo austriaco. Ricordiamo tra le altre che ha curato un’edizione critica delle Philosophische Untersuchungen nel 2003, per la Bibliothek Surkamp ed è stato coautore con B. McGuinness del volume Ethics and the Will, Reidel, Dordrecht e Boston, 1994. Probabilmente la sua monografia principale è Erlebnis und Ausdruck: Wittgenstein Philosophie der Psychologie, Philosophia Verlag, Munchen, 1987; ormai un classico sulla filosofia della psicologia di Wittgenstein.

In questo volume vengono raccolti saggi della seconda metà degli anni ’80, ad eccezione del saggio che dà il nome al volume, composto nel 1984. L’attenzione è rivolta, in particolare, al cd. “secondo Wittgenstein” e affronta temi come il concetto di mitologia, immagine del mondo, contesto, senso secondario, ma anche riguardanti lo stile, la teoria dei colori, l’estetica. Con un andamento tutto wittgensteiniano accosta l’autore austriaco ad altri pensatori facendone emergere, di volta in volta, affinità e contrasti sui singoli motivi trattati, mantenendo un ordine espositivo e un’accuratezza nei riferimenti davvero puntuali.

«Come il “coro” delle piante e degli “organi” delle piante possono alludere a una “legge segreta” della metamorfosi solo se iscritti in un contesto esplicativo, così anche l’aspetto essenziale del concetto di gioco si esprime principalmente nella chiarificazione di esempi di volta in volta addotti» (p. 39).

La grande lezione metodologica che Wittgenstein mutua dal Goethe autore de La metamorfosi delle piante è quella di giustapporre immagini, esempi, secondo un ordine che funga da guida nella nostra ricerca (sia essa concettuale o di altro tipo) e a rendere conto dei fenomeni in maniera nuova ed illuminante.

Goethe inseriva la morfologia tra le scienze della natura, il cui vertice è la fisiologia, ed uno degli scopi dichiarati del suo metodo di indagine era di contrastare il metodo di spiegazione causale. Vi si opponeva non tanto perché ritenesse il suo metodo di ricerca più efficace e rigoroso, quanto piuttosto per rifiutare una certa immagine filosofica che si cela dietro questo modello, vale a dire quello di vedere nei fenomeni qualcosa di nascosto e profondo da portare in superficie, sotto l’egida della causalità. Lo scopo dell’illustre autore romantico si racchiude nella formula “darstellen und nicht erklären”, che potrebbe essere il titolo, per così dire, del § 109 delle Ricerche Filosofiche. Schulte illustra bene come il connubio tra Wittgenstein e Goethe (e per altri versi Spengler), nonostante delle evidenti differenze, riposi non su punti teorici specifici, ma su un approccio peculiare nel modo di vedere i fenomeni che ci circondano.

Nel saggio Coro e legge, si insiste in particolare su due punti che mettono in luce il ruolo esplicativo del metodo goethiano, in modo da farne anche risaltare la vicinanza intellettuale con il filosofo austriaco. Il primo riguarda la questione del fenomeno ‘originario’ (che diventa ‘tipo’, nel regno animale), l’Urbild, ovvero il termine di paragone per classificare le varie tipologie di piante, riconoscerne le differenze e le somiglianze. Si deve tener presente che il prototipo non è che una lista compilata su base empirica (dunque a posteriori) delle parti degli esseri organici, uno schema la cui costruzione si giustifica solo sulla base del successo pratico. L’applicazione di questo schema concettuale va dalla botanica all’anatomia comparata, alla teoria dei colori.

Il secondo punto su cui si pone l’accento è che lo scopo del modello è fornire una rappresentazione perspicua. Schulte, con la sua classica precisione nei riferimenti testuali, cita un passo delle Note sul ramo d’oro di Frazer, dove Wittgenstein richiama letteralmente la metafora goethiana del coro e della legge segreta, proprio per commentare Frazer alla luce della nozione di übersichtliche Darstellung. Questa nozione si lega strettamente con la nozione di descrizione e di metodo descrittivo in Wittgenstein, che Schulte, peraltro, affronta nel saggio ottavo. La filosofia non procede come le scienze naturali, essa assesta i fatti ordinari (non scopre fatti nuovi) per far emergere il nostro uso concreto del linguaggio. Per colmare eventuali vuoti (l’immagine è sempre quella della ‘serie’), il filosofo inventa anelli intermedi, vede connessioni tra fenomeni con l’aiuto dell’immaginazione (qualità, per Goethe, fondamentale per il ricercatore). Infatti, è questa la facoltà che ci permette di costruire per analogia esempi, giochi linguistici capaci di farci comprendere un fenomeno, senza l’ansia di rintracciare una teoria giustificativa onnicomprensiva. Aver raggiunto uno scopo del genere, per Wittgenstein, vorrebbe dire aver cambiato atteggiamento verso la nostra forma di vita ordinaria, aver cambiato sé stessi.

Ma il commento a Frazer ci dice anche un’altra cosa sulla filosofia wittgensteiniana e Schulte ne tratta nel saggio sulla superstizione, ma anche in quelli riportati al capitolo 7 e 8 sui concetti di mitologia e descrizione. In effetti si potrebbero vedere i primi due saggi e questi ultimi come collegati da un filo rosso, la cui trama si alterna tra l’esporre l’operare di una buona filosofia (quale sarebbe quella di Wittgenstein) e il disincanto dal considerare i nostri problemi risolti, solo per l’aver trovato un metodo esplicativo (errore in cui sembrano incorrere, almeno in parte, Goethe e Spengler). Ciò che sembra emergere è, da un lato, fugare ogni impressione che il filosofo voglia riformare il linguaggio (Ricerche Filosofiche, § 122), ma, dall’altro, che qualora il nostro sguardo si volga in maniera diversa, esso adotterà pur sempre un’immagine. Una mitologia si è sostituita ad un’altra.

Schulte riconduce al termine superstizione i timori che l’uomo sublima nella scienza o nella religione. Questi, infatti, appaiono numi tutelari delle nostre certezze. Qualcosa di solido sembra proteggerci. Fede, invece, denomina una profonda riverenza verso l’ignoto, quello stesso timore sembra rimanere senza altre parole per esprimersi. Questo è un esempio di luogo linguistico in cui le spiegazioni hanno un termine (Tractatus, 6.372, Ricerche Filosofiche, § 217). L’immagine del mondo ipostatizzata si può cambiare, ma questo implica una conversione, un atteggiamento diverso. E quest’immagine non può che presentarsi infondata, rispetto al vecchio concetto di fondatezza. In Wittgenstein quest’immagine diventa mitologia, e viene paragonata a un fiume, che, sebbene regolato da un alveo, può cambiare a seconda della corrente, adattarsi a nuovi dati di fatto.

L’immagine del fiume viene ripresa nel saggio Immagine del mondo e Mitologia, dove Schulte mette a confronto Kleist e Wittgenstein per far emergere che cosa intenda quest’ultimo con l’accezione ‘immagine del mondo’. Ebbene proprio la possibilità di cambiamenti graduali nel tempo (come suggerisce l’esempio del fiume) e il carattere sociale della visione del mondo, sono due tratti che differenziano Wittgenstein da una concezione scettica ingenua, che vede l’uomo condannato a osservare il mondo attraverso lenti colorate. Ovviamente, si sottolinea un qualche senso per cui la nostra immagine del mondo non è scelta, ma questo non è abbastanza per liquidare la questione. Schulte si concentra sull’analisi di che tipo di proposizioni sono quelle che esprimono la nostra immagine del mondo, in particolare confrontandosi con il testo Della Certezza. Egli individua almeno tre tipi di proposizioni, che lo portano ad individuare due elementi salienti del resoconto di Wittgenstein (che mostrano, per inciso, la stranezza e l’inefficacia della risposta di Moore allo scetticismo): l’immagine del mondo è in larga parte condivisa, e questo ci viene indicato dal fatto che le proposizioni che la descrivono non hanno pressoché alcun impiego ed è immune da possibili dubbi in tutte le situazioni normali immaginabili, come a dire che un problema di verità su di esse non si pone. Ma esse si riferiscono, con i pronomi dimostrativi, ad esempio, ad interlocutori determinati che possono differire rispetto ad altri in alcuni aspetti salienti della loro immagine del mondo.

Dall’analisi di Schulte viene fuori un’istanza di privatezza che non vuole rimanere taciuta e che, però, dialoga con e dentro il contesto linguistico e di vita ordinaria, che le dà parola.

Questo tema è al centro dell’ultimo saggio, Contesto. Questo è un concetto molto caro a Wittgenstein sin dal Tractatus e lo accompagna, con diverse riformulazioni, per tutta la sua produzione. In definitiva, il punto saliente per Schulte è delucidare il problema del fondamento. Tra i tanti contesti linguistici (o pseudo-linguistici), che Wittgenstein propone nei suoi esempi, c’è quello delle reazioni primitive, come, ad esempio, un grido. Esternazioni come questa trovano comprensione solo in una comunanza di forma di vita. Sembra interessante, allora, capire se la nozione di ‘forma di vita’ sia il termine ultimo del regressus. Ma Schulte osserva che non viene mai data una definizione esplicita di tale nozione e che, peraltro, è molto difficile separarla da quella di ‘gioco linguistico’. Tutto questo è coerente con il fatto che per Wittgenstein forme di vita e forme linguistiche sono sullo stesso piano, per così dire, ‘giustificativo’ (qualsiasi cosa significhi). Nel significare ciò che diciamo ha importanza ‘anche’ il fatto di avere in comune una regolarità del comportamento, ed è a partire da questo che noi possiamo valutare le nostre proposizioni o quelle che formulerebbe una tribù primitiva. Una tale concordanza – quella che S. Cavell chiama attunement – è una concordanza nei criteri e, tuttavia, non fornisce una cornice ben definita al cui interno possono essere interpretati tutti gli enunciati comprensibili. È su questa stessa base, inoltre, che si apre la possibilità di un disaccordo, di una mancanza di intesa reciproca. Qui si scontrano due mitologie, due immagini del mondo, come nel caso in cui un uomo è un completo enigma per un altro uomo (Ricerche Filosofiche, § 568), cioè, può avvenire che nel suo comportamento troppe cose rimangono oscure. Che questa possibilità di incomprensione rimanga aperta è per Wittgenstein un punto centrale.

Un’altra serie di temi affini è affrontata nei saggi 3, 4 e 6.

In Questioni di stile, Schulte rende conto della salienza del concetto di stile nell’opera (sia in senso formale che sostanziale) di Wittgenstein confrontandolo, ‘morfologicamente’, con Goethe e Spengler. Tra i significati che Schulte rintraccia ci sono aderenze in entrambi gli autori: lo stile è qualcosa espresso dall’individualità, ma rappresenta anche lo spirito di un’epoca, a volte racchiuso in mezzi espressivi tipici. Questi due aspetti si riuniscono nell’opera d’arte, la quale acquista significato (e comprensibilità) «per il fatto che nella sua fattura si rispecchia la personalità del suo creatore. Per questo il genio ha bisogno di coraggio, come afferma Wittgenstein, perché non è cosa facile esprimersi in maniera autentica nell’opera» (p. 71). Tuttavia, quando vi riesce, l’opera impone i suoi criteri da sé. Quest’ultima considerazione introduce al tema spinoso dei criteri estetici, di cui Schulte si occupa nel saggio a seguire. L’opera di genio in realtà è un caso limite per Wittgenstein. Il grosso dei nostri giudizi estetici sembra vertere sulla correttezza riguardo al modo in cui l’artista si è espresso, come se volessimo rendere conto di un paradigma estetico che pur tuttavia non riusciamo a formulare pienamente. Schulte si inserisce, dunque, in una linea interpretativa ineffabilista, secondo cui il rispetto delle norme artistiche standard lascia fuori qualcosa di inesprimibile. Malgrado ciò, con un andamento oscillante, fornisce un resoconto della concezione estetica (e quindi etica e, in definitiva, sulla questione cruciale dei limiti del linguaggio) tenendo conto anche della nozione di ‘senso secondario’, più cara ad un altro tipo di approccio ai testi wittgensteiniani. L’esempio del sarto è emblematico a questo proposito: egli ha imparato regole e, tuttavia, può anche ‘acquisire una sensibilità alle regole’. Questo significa che, a partire da una padronanza degli strumenti linguistici in senso primario (ovvero, ordinario), si può dilatare un contesto d’uso di una parola, o di un’opera (ad esempio, il modo di leggere una poesia). Ovviamente, vale la pena, ancora una volta, di ricordare che queste proiezioni di senso cadrebbero nel vuoto senza un ascoltatore che le ‘accetti’, che le riconosca come valide.

In queste valutazioni Schulte trova delle affinità con il concetto di metafora di D. Davidson, soprattutto in relazione alle assonanze che il senso secondario ha con il tema del ‘vedere come’. Tuttavia, le differenze appaiono troppo vistose per non offuscare le affinità. Infatti, Davidson rimane ad una concezione referenzialista del significato, che slega, da un punto di vista logico, il senso primario e secondario. Una tale posizione non differisce da quella di Wittgenstein solo perché c’è un completo rifiuto di quell’immagine del significato, ma anche perché quell’immagine è sintomo di un’intera idiosincrasia filosofica.

Spesso nei saggi di questo volume troviamo una latente accusa di relativismo, sia perché alcuni concetti appaiono vaghi, sia perché il riferimento al contesto comprime le speranze di un accordo solido e durevole. Vorremmo sottolineare, con elementi che lo stesso Schulte fornisce, che il metodo morfologico come rinvenimento di somiglianze e differenze dovrebbe liberare il nostro intelletto dal fascino dell’idea di profondità e di fondamento e che solo nella possibilità del disaccordo riposa la possibilità di disincantare il filosofo metafisico dal suo isolamento linguistico.

 

Schulte, Joachim, Coro e Legge. Wittgenstein e il suo contesto, Lecce, Pensa Multimedia, collana Centopassi dir. da Franca Papa, Lecce 2007, pp. 164, € 16

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