Questo volume raccoglie contributi – con l’eccezione del capitolo depoliticizing democracy di Philip Pettit – elaborati in occasione del workshop dal medesimo titolo svoltosi a Granada nel maggio 2005 nel quadro del ventiduesimo congresso mondiale di filosofia del diritto e filosofia sociale. A questa collocazione geografico-filosofica corrisponde una doppia ispirazione: da un lato si vuole contribuire a sviluppare il discorso pubblico europeo su un tema ancora largamente dominato dal mondo accademico statunitense, d’altro canto il volume mira a mettere la democrazia deliberativa in connessione non (sol)tanto con i suoi critici insoddisfatti, ma esplicitamente anche con ambiti di studio tangenziali o esterni alla political theory, come la filosofia del diritto e lo studio empirico dei processi di governance trans- e/o post-nazionali (e qui il focus è ovviamente sull’Unione Europea, cui sono dedicati tre degli undici saggi che compongono il volume).
In conformità a questa struttura, il libro è diviso in tre parti, dedicate ai fondamenti dell’idea di deliberazione (Why deliberate), alle sue modalità di realizzazione (How to Deliberate) e ai “luoghi” della deliberazione (Where to deliberate). Questa tripartizione è preceduta dalla breve ma pregevole introduzione dei curatori del volume; introduzione non soltanto al libro stesso, bensì alla democrazia deliberativa in generale, utilissima per ricchezza e puntualità di riferimenti bibliografici così come per la concisa chiarezza con la quale presenta i caratteri fondamentali e le principali questioni irrisolte delle teorie deliberative.
La prima parte del libro include tre saggi orientati a spiegare, almeno in parte, i fondamenti della democrazia deliberativa in chiave giustificazionale. Nel primo di essi, Christina Lafont ripropone, cercando di tirarne le somme in una conclusione articolata, l’annoso problema della coerenza tra la deliberazione, come discorso pubblico ragionevole e la democrazia, come partecipazione e autonomia; elementi entrambi ovviamente costitutivi per la deliberative democracy, ma non perciò forniti di alcuna armonia prestabilita. Il secondo saggio, dello stesso Martì, difende una concezione fortemente epistemica della deliberazione, pur (anzi, forse proprio perciò) non considerandola sufficiente per giustificare la democrazia deliberativa. Martì sostiene cioè che si debba difendere l’idea che la deliberazione consenta risultati decisionali cognitivamente migliori, ma che questa non possa essere la sola giustificazione per la democrazia deliberativa, cui dobbiamo comunque riconoscere un valore intrinseco e non soltanto strumentale, perché altrimenti si rischierebbe di approdare a una sorta di “elitismo epistemico” – naturalmente, qui l’argomentazione si riconnette alle questioni del capitolo precedente. Il saggio di Martì è rimarchevole – che si concordi o meno – soprattutto per la recisa opposizione alla tendenza, negli ultimi anni largamente prevalente, a “rilassare” i criteri del discorso argomentativo, consentendo normativamente a che della deliberazione facciano parte anche altre tipologie di comunicazione (come la persuasione retorica, l’espressione di emozioni ecc.). Chiude questa prima parte il saggio di Andreas Follesdal, che sostiene – in modo convincente, ma con il limite di considerare paradigmatico un sottoinsieme forse troppo ristretto delle teorie deliberative, cioè quello d’ispirazione liberal-rawlsiana – la duplice necessità di elaborare una definizione più chiara e ristretta della democrazia deliberativa e di combinare maggiormente lo studio empirico della deliberazione con la sua elaborazione teorica; solo così sarebbe possibile spiegare in che cosa esattamente consista il “valore aggiunto” (che dà il titolo al saggio) della democrazia deliberativa, rispetto ad altre teorie democratiche.
La seconda sezione del volume assume un approccio più attento alla prassi effettiva della deliberazione, pur senza abbandonare il terreno della riflessione teorica. David Estlund argomenta in modo articolato come la situazione discorsiva reale non sempre dovrebbe tentare di rispecchiare, nelle sue regole, le condizioni ideali; viceversa, secondo il contesto, può essere normativamente corretto da un punto di vista deliberativo lasciare spazio anche ad azioni politiche di rottura (con una inaspettata, non saprei dire quanto pertinente, ripresa di Marcuse), niente affatto discorsivo-argomentative. Le regole di civility dovrebbero quindi essere modulate nei diversi contesti, da un massimo di apertura nella sfera pubblica generale a un massimo di rigorosità nei contesti politico-decisionali formalizzati. Il già citato articolo di Pettit, inserendosi con forza nel tema del rapporto tra democrazia e deliberazione già introdotto nel primo capitolo, è tra i contributi più rilevanti presenti nel volume. In modo conforme alla propria posizione “repubblicana”, Pettit argomenta come un governo informato deliberativamente contraddica la democrazia, a meno che questa non sia de-politicizzata. Ciò significa, per l’autore, che rendere coerenti deliberazione e democrazia implica pensare quest’ultima come il governo (rule) non della «collective will» bensì della «public valuation»; coerente con ciò è l’approccio bi-dimensionale alla democrazia proposto dall’autore, e dalla tradizione repubblicana: il governo democratico dovrebbe includere tanto istituzioni politicizzate e «deeply contestatory» quanto istituzioni di controllo sottratte ad una influenza popolare diretta. A parte i problemi d’implementazione che potrebbero essere pragmaticamente risolti (e di fatto lo sono: non è che il modello delineato da Pettit sia molto difforme dalla costituzione degli Stati Uniti), l’argomentazione dell’autore sarebbe condivisibile, non fosse per una minuzia terminologica; infatti, nonostante sia apprezzabile il tentativo di allontanare il centro del concetto di democrazia dalla volontà, nei termini in cui è presentata la proposta bi-dimensionale sembrerebbe più correttamente descritta nel senso di de-democratizzare, parzialmente, la politica, che non viceversa. Il saggio di Jane Mansbridge si trova invece sulla linea – come si è detto oggi maggioritaria – di allargare i confini normativi della deliberazione; non però sul piano dell’inclusione di forme di comunicazione retoriche o genericamente espressive, rifiutato da Martì, bensì relativamente alla possibilità di atteggiamenti auto-interessati e conflittuali entro i limiti della deliberazione (con conseguente apertura verso la validità, anche normativa, di trattative, negoziazioni e votazioni). Anche qui la linea argomentativa passa attraverso un’articolazione della deliberazione – questa volta in diversi momenti temporali – per giustificare un approccio più sfumato alla questione di quali mezzi e atteggiamenti sia lecito impiegare in ciascuna situazione. Chiude questa sezione il saggio di Deirdre Curtin, dedicato alla deliberazione pubblica nell’Unione Europea e alla relazione con la sua legittimità democratica.
La terza ed ultima sezione del volume è caratterizzata soprattutto dal tentativo di estendere la teoria deliberativa verso la prospettiva della democrazia trans-nazionale. In questa chiave, Francis Cheneval, mettendo in luce il nesso tra la democrazia deliberativa e una comunità idealmente illimitata, distingue tra il demos proprio di ogni nazione – che è positivamente necessario per garantire che la deliberazione avvenga realmente – per il quale appartenenza e ruolo decisionale sono formalmente istituzionalizzati, e i demoi al plurale, che hanno un ruolo per la democrazia, però informalmente, in quanto parte di un dibattito pubblico globale – con ciò altrettanto sono necessari dal punto di vista dell’ideale epistemico, ovviamente non limitato ai confini di alcuna nazione, proprio della democrazia deliberativa. Samantha Besson articola un modello di democrazia deliberativa applicato all’unione europea, fondato sull’idea di de-territorializzare l’appartenenza democratica attraverso la concezione di demoi differenziati (quelli nazionali, il demos formato da tutti gli europei e quello dell’insieme dei singoli popoli); la democrazia deliberativa molto più dei modelli precedenti può aiutare a elaborare le istituzioni necessarie in quanto già dall’origine è fondata su un’idea di partecipazione slegata da appartenenze rigidamente formalizzate a priori. James Bohman affronta il classico problema della legittimità della democrazia, anch’egli però trasportandolo sul piano europeo trans-nazionale. Partendo dal declinare il problema della legittimità in termini deliberativi e partecipativi (la legittimità non deriva solo dalla bontà degli esiti ma anche dalla possibilità per i cittadini di ‘iniziare’ la deliberazione), Bohman entra direttamente nel concreto dibattito sulla costituzione europea (allora si stava bocciando la prima proposta, oggi non ci troviamo purtroppo in una situazione molto migliore con la seconda) argomentando che, sebbene una nuova costituzione sia necessaria dal punto di vista di chi crede nell’Unione Europea, questa può essere legittimamente (ed efficacemente) approvata soltanto in conformità con gli stessi mezzi deliberativi di una democrazia trans-nazionale tra diversi demoi che essa stessa giustamente prevederebbe una volta in vigore. Chiude il libro il saggio di Roberto Gargarella, dedicato alla domanda se i sostenitori della deliberazione dovrebbero difendere o meno la possibilità per i giudici di obbligare al rispetto dei diritti di tipo sociale. Per l’autore la questione nasce dall’osservazione che nel motivare le loro decisioni di non imporre diritti sociali al di là di quanto previsto dagli organi politici, i giudici spesso si appellano alla democrazia (secondo diverse concezioni ma sempre nella suddetta direzione) ma non includono argomentazioni deliberative, nonostante l’influenza raggiunta da questo tipo di teorie. Di per sé l’istituzione della revisione giudiziaria trova valutazioni divergenti tra i teorici deliberativi, ma l’autore ne sostiene la legittimità in quanto metodo per favorire le possibilità di deliberazione tra i cittadini. In questa chiave argomenta a favore di un deciso attivismo dei giudici, anche al di là dei limiti che altri autori considerano compatibili con la democrazia deliberativa, pur riconoscendo la necessità, per superare il giustificato scetticismo, di modificare l’assetto istituzionale della revisione giudiziaria nel senso di favorire la deliberazione tra i diversi poteri dello stato e di spingere i giudici a motivare esplicitamente in modo deliberativo le loro decisioni.
In conclusione, questo libro può rappresentare una valida introduzione alla democrazia deliberativa (soprattutto per le prime due parti), pur con l’avvertenza di una certa prevalente inclinazione verso il suo lato liberal-rawlsiano; ma è per chi studia nello specifico la materia che dimostra il suo miglior valore, grazie tanto alla puntualità e alla ricchezza dei riferimenti al dibattito precedente quanto all’esplorazione di alcuni temi non certo classici della precedente letteratura deliberativa. Unico ostacolo, il prezzo elevato, purtroppo un male comprensibile e diffuso tra le pubblicazioni specificamente accademiche. |