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Sean B. Carroll, Al di là di ogni ragionevole dubbio. La teoria dell'evoluzione alla prova dell'esperienza

 

 

 

recensione di Federico Morganti

 

Sean Carroll è Professore di Biologia Molecolare e Genetica all’Università del Wisconsin. Fautore della nuova scienza dell’Evo-Devo, è tra coloro che hanno erogato i propri sforzi nello studio di quei geni – gli Hox – che definiscono la sintassi corporea della maggior parte degli animali a simmetria bilaterale, individuando le ‘posizioni’ di riferimento dell’intera architettura. La loro esistenza, tanto nel moscerino da frutta quanto nel topo o nell’essere umano, rappresenta perciò un importante indizio della discendenza comune delle specie. Queste ricerche erano state illustrate da Carroll nel precedente Endless Forms Most Beautiful (trad. it. Infinite forme bellissime. La nuova scienza dell’Evo-Devo, Codice, Torino 2006). In quella sede si affermava in sintesi che la stragrande maggioranza degli animali condivide il medesimo “kit degli attrezzi” genetico, e che le più importanti novità evolutive siano dovute a nuovi modi di utilizzare i medesimi geni. Le istruzioni per l’attivazione dei geni del kit, spiegava Carroll, sono in ultima istanza contenute negli ‘interruttori genetici’, sequenze di DNA non codificante in grado di influenzare l’attività delle parti codificanti. In che modo gli interruttori svolgono tale compito? In breve, integrando le informazioni spaziali dell’embrione in modo da rifletterne in ogni momento lo stato di sviluppo. Ma in tal modo l’autore, volente o nolente, ridimensionava il senso in cui tali interruttori contengono le istruzioni dell’attivazione dei geni del kit, dal momento che «lo stato di ciascun interruttore è determinato da eventi precedenti» (Infinite forme bellissime, cit., p. 111) e dunque necessariamente contestuale.

Ora, se in Infinite forme bellissime Carroll illustrava le importanti novità teoriche dell’Evo-Devo, in Al di là di ogni ragionevole dubbio (The Making of the Fittest nell’edizione originale) egli sembra fare ritorno all’abc darwiniano, ovvero mutazione e selezione. Questa semplificazione costituisce in realtà un espediente funzionale allo scopo che il testo si prefigge, quello di fornire un insieme di prove che «chiude il caso dell’evoluzione biologica come base della diversità della vita» (p. XIII). Si tratta, infatti, di un compito che non richiede di per sé un approfondimento delle dispute evoluzionistiche e che può essere aggredito con gli strumenti teorici essenziali. Le prove ivi fornite sono esclusivamente di carattere genomico e riguardano gli adattamenti che la selezione opera a livello del DNA, il «testo alla base dell’evoluzione» (p. 10), mediante la modificazione di sequenze esistenti, la distruzione di quelle vecchie e la creazione di nuove. Questo apparato di testimonianze empiriche è emerso grazie alle potenti tecniche di sequenziamento genico che hanno reso possibile il confronto tra patrimoni genici di specie differenti, in modo da ricavarne il grado di parentela e riconoscere in essi l’impronta della selezione naturale.

Essendo il DNA il testo alla base dell’evoluzione, la fonte della variabilità necessaria alla selezione non potrà che provenire interamente dalle mutazioni che occorrono in esso. La prima parte del volume è così dedicata alla «matematica spicciola dell’evoluzione» (cap. 2) e alla possibilità, statisticamente certificata, che le mutazioni premianti possano diffondersi all’interno delle popolazioni, attraverso il gioco combinato di caso, selezione e tempo. Se la matematica ci mostra la possibilità dell’evoluzione, il confronto tra i genomi ce ne mostra la realtà. Vi sono tre modi, sostiene l’autore, in cui può agire la selezione naturale: in primo luogo, scartando i cambiamenti dannosi e mantenendo i geni al loro livello di ottimalità; secondo, favorendo le mutazioni che si rivelano utili; terzo, ignorando quelle di carattere neutro.

Alla prima categoria appartengono i geni maggiormente diffusi all’interno del mondo vivente – tanto in batteri e funghi, quanto in piante e animali –, che sono alla base dei processi cellulari fondamentali. Questi geni «immortali» (p. 60) hanno resistito a oltre due miliardi di anni di bombardamento di mutazioni, restando sostanzialmente inalterati a dispetto della loro ampia diffusione. Ciò non significa, si badi bene, che la sequenza di basi sia ovunque identica. Il codice genetico, infatti, è ridondante: più di una tripletta di basi può codificare per il medesimo amminoacido, dunque la funzionalità di un gene può restare inalterata anche in presenza di alcune mutazioni. Nemmeno i geni “immortali” nel corso del tempo sono stati esenti da mutazioni, ma fra tutte sono sopravvissute soltanto quelle ‘sinonime’, cioè tali da non alterare l'usuale espressione del gene. La predominanza numerica delle mutazioni sinonime può essere spiegata soltanto dall’azione della selezione naturale, «che mantiene la “purezza” della sequenza di amminoacidi delle proteine eliminando quei cambiamenti che comprometterebbero la loro funzione» (p. 61). I geni immortali costituiscono perciò una registrazione affidabile della storia della vita e delle ramificazioni che l’hanno caratterizzata.

Il secondo gruppo di testimonianze empiriche riguarda il modo in cui «vengono create nuove funzioni e nuovi geni a partire da “vecchi” geni» (p. 72). L’esempio adoperato è quello della visione dei colori. Lo spettro delle lunghezze d’onda percepito da un occhio dipende dalla presenza di particolari pigmenti, costituiti da speciali proteine dette opsine. Ciascuna opsina costituisce il pigmento di una particolare lunghezza d’onda, di modo che differenti famiglie di animali presentano un diverso numero di opsine, corrispondente all’ampiezza del loro spettro percettivo: così, la maggior parte dei mammiferi ne ha due, uccelli e pesci perlopiù quattro, Homo sapiens tre. Ora, dal momento che a ciascuna opsina corrisponde un gene distinto ma simile, è evidente che la proliferazione delle opsine sia dovuta a casi di ‘duplicazione genica’ grazie ai quali, da una singola unità, si sono ottenuti geni simili poi evolutisi al servizio di adattamenti diversi. Il confronto tra le sequenze mostra, però, anche un altro elemento di grande interesse nella ricostruzione delle parentele: si tratta di inserzioni casuali di junk DNA – dette long interspersed elements (LINE) e short interspersed elements (SINE) – all’interno delle sequenze geniche. Queste inserzioni sono piuttosto rare e la loro presenza nella medesima regione di DNA in specie diverse può essere spiegata solo dall’esistenza di un antenato comune.

Infine, alla terza categoria di effetti selettivi, troviamo i ‘geni fossili’, porzioni di DNA inattive, non più adoperate dall’organismo e dunque testimonianza dell’adattamento a nuove condizioni di vita. Proprio il gene dell’opsina di alcune specie, ad esempio del celacanto, presenta delezioni e cambiamenti tali da alterarne drasticamente la sequenza rendendolo non più funzionale. Lo stesso fenomeno è osservabile in molti cetacei. Si tratta di animali che vivono nelle profondità marine e non hanno dunque la possibilità di adoperare la visione dei colori. In assenza di tale necessità, è dunque evidente che la selezione abbia “abbassato la guardia” tollerando l’accumulo di mutazioni nella sequenza. L’aspetto curioso è che lo stesso tipo di “fossilizzazione” è avvenuto anche in specie non marine, dalle abitudini notturne o comunque non strettamente dipendenti dalla visione. Una di esse, ovviamente, è Spalax ehrenbergi, comunemente nota come talpa cieca. Il medesimo fenomeno, inoltre, si è verificato per i geni dei recettori olfattivi della nostra specie, il cui senso dell’odorato, non a caso, è surclassato dalla quasi totalità delle specie a essa affini.

Ora, il fatto che gli stessi geni fossili sussistano in specie tra loro lontane, come la balena e la talpa, è indice del fatto che condizioni ecologiche simili possano provocare cambiamenti genetici simili. Un intero capitolo è così speso per illustrare numerosi esempi di déjà vu evolutivi (non soltanto di tipo “fossile”), ossia casi di ‘evoluzione convergente’ in cui specie diverse, pur nella diversità di dettagli, hanno trovato soluzioni simili ai medesimi problemi. L’evoluzione si ripete. È opportuno far notare, tuttavia, come il ripetersi dell’evoluzione non contraddica, come vuole l’autore, l’idea di Stephen J. Gould per cui «se riavvolgessimo il film della storia della vita e lo facessimo partire di nuovo, il risultato sarebbe del tutto diverso» (p. XII). Tale tesi – che il celebre paleontologo, riteniamo, in ogni caso non avrebbe esitato a dichiarare infalsificabile – non era tanto relativa alla realtà microscopica dei geni e delle mutazioni, quanto alla macrorealtà delle specie e dei cambiamenti geoclimatici su larga scala; è a questo livello che Gould rintracciava la contingenza storica in quanto tratto costitutivo dell’evoluzione, ed è dunque soltanto a questo livello che la sua affermazione può ricevere un’eventuale confutazione.

L’ultima parte del volume ritorna sull’annosa disputa tra evoluzionisti e creazionisti, tema giustamente molto sentito da un americano come Carroll, ma su cui non è necessario soffermarsi. Ben più importante è invece il capitolo in cui Carroll riaffronta le questioni del suo precedente volume prendendo di petto il problema dell’origine della complessità. Un conto, infatti, è l’evolversi di differenti funzioni del medesimo organo, come nel caso della visione dei colori; tutt’altra questione è la nascita di un organo come l’occhio, da sempre considerato sommo esempio di complessità biologica. Come si è potuti passare da semplici recettori per la luce al sofisticato apparato binoculare dei mammiferi? Ebbene, le nuove prove ci dicono che «occhi del tutto diversi hanno molto più in comune di quanto si fosse pensato» (p. 168). Gli occhi delle specie più semplici, infatti, «sono costituiti grazie agli stessi ingredienti utilizzati in occhi più complessi» (p. 170), a partire cioè dagli stessi geni e tipi cellulari. Lo stesso dicasi per altri organi quali il cuore o il fegato. Come già si affermava in Infinite forme bellissime, perciò, la differenza nella forma non riflette una differenza proporzionale nel genoma e la sua evoluzione avviene spesso modificando il modo in cui determinate parti del kit sono adoperate.

A dispetto del suo impianto di fondo, il testo è così costretto a integrare il meccanismo darwiniano fondamentale con le recenti scoperte dell’Evo-Devo. Se infatti le innovazioni evolutive possono insorgere a partire da dotazioni geniche simili, è plausibile che tali cambiamenti siano da attribuire a novità nello sviluppo, anziché a ragioni strettamente adattative. Come scrive il nostro Alessandro Minelli, «gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta si trovano […] all’incrocio fra due logiche, quella dello sviluppo e quella dell’adattamento evolutivo» (Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo, Einaudi, Torino 2007, p. 205). L’egemonia del meccanismo mutazione-selezione deve inoltre fare i conti con dimensioni biologiche tutt’altro che irrilevanti per chi intende dare un resoconto completo e attendibile della storia della vita: derive genetiche, equilibri punteggiati, sistemi ereditari epigenetici, costruzione delle nicchie ecologiche. La decisione di lasciare da parte tali questioni, come detto, è da un lato perfettamente in linea col target che il testo si impone, quello di fornire delle prove. Da questo punto di vista è fuor di dubbio che il volume ottemperi brillantemente a tale compito, illustrando con il giusto livello di approfondimento tecnico quelle che risultano prove di grande peso. Tuttavia, anche in questo caso, va osservato che la forza della teoria è da attribuire non già alle sole prove di carattere genetico, ma alla concordanza tra prove di svariata provenienza disciplinare, non ultima la documentazione fossile che, per quanto incompleta, come amano ricordarci i creazionisti, è ciò nondimeno in grado di integrare le analisi dei genomi e fornire contributi decisivi al racconto dell’evoluzione.

 

Carroll, Sean B., Al di là di ogni ragionevole dubbio. La teoria dell’evoluzione alla prova dell’esperienza, Codice Edizioni, Torino 2008, pp. XIII-258, € 30

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