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Aldo Giorgio Gargani, Wittgenstein

 

 

 

 

recensione di Francesco Pesci

 

Aldo Giorgio Gargani insegna Metodologie della ricerca filosofica all’Università di Pisa ed è personaggio ben noto agli studiosi italiani di Wittgenstein. Ha curato numerose edizioni dei testi del filosofo austriaco (Lezioni 1930-1932; Osservazioni sui colori; Libro blu e libro marrone; Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, Della certezza), ha scritto altrettanto numerose introduzioni a quei volumi e ha fornito altri significativi contributi al panorama degli studi wittgensteiniani in Italia (Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 2007; Wittgenstein e Freud: filosofia e terapia linguistica, in M. Mancia (a cura di), Wittgenstein e Freud, Bollati Boringhieri, Torino 2005; Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità, Edizioni Plus, Pisa 2003). Il notevole merito e la piacevole novità di questo volume risiedono nel portare alla luce un campo di studi poco frequentato nel nostro paese e che, a esclusione del volume di Piergiorgio Donatelli (Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998), pubblicato oramai dieci anni fa, non ha ancora trovato un terreno fertile e un posto rilevante nell’agenda filosofica italiana. Il volume di Gargani vuole infatti inserirsi in maniera esplicita in quella corrente interpretativa del pensiero del filosofo austriaco che prendeva corpo all’inizio degli anni ’90 nell’universo accademico angloamericano sotto il nome di The New Wittgenstein, che è oggi ancora viva e sembra tutt’altro che superata. Si tratta di una linea che fa riferimento a fondamentali saggi di James Conant, Cora Diamond, Stanley Cavell, John McDowell, Warren Goldfarb, Juliet Floyd e altri. La visione che questi autori offrono del pensiero di Wittgenstein – che qui non possiamo far altro che sintetizzare in maniera insufficiente – si basa essenzialmente su due assunti. Da un lato, viene proposta una concezione del linguaggio non governato da puntelli o regole ‘esterne’, che ne assicurino il funzionamento e ci dispensino dalla responsabilità che abbiamo verso il significato delle nostre parole e l’uso dei nostri concetti e, dall’altro, viene avanzata una lettura ‘continuista’ del pensiero di Wittgenstein, che mette in connessione il Tractatus logico-philosophicus con il cosiddetto ‘secondo Wittgenstein’, evidenziandone l’intento etico-terapeutico di fondo e ravvisando solo una differenza metodologica con gli scritti maturi: se la delucidazione concettuale è condotta nel Tractatus attraverso l’analisi logica delle proposizioni e il dissolvimento dall’interno dell’immagine metafisica della relazione pensiero-mondo-linguaggio, gli scritti maturi presentano una significativa pluralità di metodi attraverso i quali raggiungiamo una übersichtliche Darstellung dei nostri giochi linguistici.

Bisogna tuttavia riconoscere da subito la specificità del libro di Gargani, che, lasciando emergere in continuazione sostanziali punti di contatto con i lavori di Diamond, Conant e Donatelli, riesce a collocare in modo del tutto calzante il pensiero di Wittgenstein in quell’universo culturale costituito dalla Vienna fin de siècle, dal quale il filosofo austriaco trasse un profondo influsso. Sicuramente il testo brilla per capacità sintetica, dal momento che riesce a toccare una infinità di temi wittgensteiniani nello spazio di poche pagine e a mostrare illuminanti connessioni e decisive differenze rispetto alle opere di una gran quantità di autori. Ne esce così un quadro completo del filosofo austriaco che tiene assieme la rilevanza dell’humus culturale in cui visse, gli sviluppi più recenti della letteratura secondaria e l’irrinunciabile originalità del suo pensiero.

Il libro prende avvio nell’Introduzione con l’intento di non delineare «interpretazioni di carattere generalizzante e complessivo» (p. XXIV) dell’opera del filosofo austriaco, volgendosi invece a una analisi dei particolari «della prassi linguistica nella loro complessità locale» (ibidem). Il testo si rende così – anche nella struttura complessiva –  un esempio di quell’amore per la concretezza e per la specificità dei contesti tipico della filosofia di Wittgenstein. Si prendono quindi le mosse da quella concezione del linguaggio che lo vuole privo di un «modello prearrangiato» (p. 14) e alieno da qualsiasi concezione ontologizzante, la quale vorrebbe istituire una relazione di designazione tra concetti psicologici ed entità mentali. Il lavoro di Wittgenstein mira proprio a una dissoluzione della dicotomia tra stati interni e linguaggio e, operando una «conversione grammaticale dell’ontologia metafisica» (p. 2), mostra come i nostri concetti psicologici siano espressivi dall’interno di «un contesto di relazioni con altre espressioni e costellazioni simboliche» (p. 3). Il tratto peculiare della lettura di Gargani consiste nel dare risalto alla «fisionomia», al «ritmo», alla «musicalità» e alla «gestualità» (ibidem) delle espressioni linguistiche, sostenendo che «la comprensione di un enunciato presenta una profonda affinità con la comprensione di un tema musicale» (ibidem). E possiamo riconoscere questa affinità nel fatto che«la musicalità della proposizione consiste nell’afferrare il contenuto della proposizione, in quanto tale contenuto è immanente e inerente alla proposizione stessa, e non richiede alcun ricorso a istanze esterne e comunque ulteriori» (p. 4). Afferrare il contenuto di una espressione significa cioè coglierne le relazioni con il contesto linguistico, senza richiamarsi a regole esterne che ne indichino il significato. «Solo la proposizione ha senso; solo nel contesto della proposizione un nome ha significato» (Tractatus logico-philosophicus, 3.3). Su questo terreno iniziale Gargani dipana la sua esplorazione attraverso importanti luoghi wittgensteiniani come il vedere un aspetto, l’esperienza vissuta del significato, il senso secondario, l’atmosfera della parola, facendo sempre leva su quella che viene chiamata la «prospettiva […] espressivista di Wittgenstein» (p. 11). E proprio l’idea di un significato che non deve essere rintracciato a partire da un ordine superiore e già definito apre il giusto spiraglio alle pagine su Hugo von Hofmannsthal e Musil, che, insieme a Wittgenstein, diedero voce a quella crisi culturale e politica che nella Vienna di fine ‘800 faceva emergere «l’uomo austriaco come uomo psicologico» (p. 27), ormai non più iscritto in un ordine superiore e coeso di razionalità, ma costretto a rinvenire la totalità armonica del mondo in lampi di connessioni intermittenti e in eventi occasionali. Il filosofo austriaco sembra così ben riflettere questo clima nel suo rifiuto di concetti generali e nell’elaborazione di un metodo teso a trovare giunture, a illuminare ‘somiglianze di famiglia’. L’abbandono di un piano di razionalità universale lascia così emergere le fisionomie individuali e particolari di cose, persone ed eventi, mentre il linguaggio viene a trovarsi privo di un fondamento e di una giustificazione epistemologica: «esso è l’espressione di una reazione immanente inerente a una prassi linguistica» (p. 31). Questa idea viene alla luce anche nella critica a Frazer, antropologo scozzese nato a metà ‘800, che interpretava i rituali magici ancora esercitati in varie popolazioni nel mondo con la chiave intellettualistica dell’uomo occidentale, tesa a valutare, soppesare e giudicare quelle credenze e opinioni “primitive”. I rituali sono letti da Wittgenstein come giochi linguistici espressivi di «desideri, sentimenti e valori» (p. 32), che non devono essere valutati e compresi a partire da un paradigma di evidenza epistemologica, ma spiegati entro la forma di vita alla quale appartengono. «L’espressivismo linguistico al posto dell’epistemologia, questa è la svolta impressa da Wittgenstein nella sua grammatica filosofica» (p. 33). Tale prospettiva non deve però esser vista alla luce di una svolta antropologica, come se il linguaggio assumesse significato a partire da una certa concezione della soggettività: «per Wittgenstein non esiste un soggetto che conferisce senso alla proposizione; la tradizionale antropologia filosofica svanisce e al suo posto resta la proposizione che dice unicamente se stessa» (ibidem). Scopriamo credenze e opinioni all’interno delle espressioni linguistiche che le manifestano; non c’è nulla prima del linguaggio e al di fuori di esso in grado di rendercelo perspicuo.

L’analisi concettuale e il bisogno di intelligibilità completa sono le armi con le quali Wittgenstein combatte con forza la «tentazione di voler vedere il proprio ideale conficcato nella realtà» (p. 50) e se tale tendenza si manifesta a partire da una revisione critica del Tramonto dell’Occidente di Spengler (pp. 45-50), raggiunge la sua forma compiuta negli scritti maturi, attraverso quello che Cora Diamond ha chiamato lo ‘spirito realistico’ di Wittgenstein. Gargani dà voce a questa inclinazione, mostrando in che modo il filosofo austriaco volesse dissolvere le illusioni di sensatezza nelle quali incorriamo quando cadiamo vittime di una «allucinazione di senso» (p. 57), un’espressione che richiama la nozione diamondiana di ‘mitologia filosofica’. Ma questi passaggi sono resi particolarmente interessanti dal confronto con le pagine di Mach, Hertz e Boltzmann. Il primo, avanzando una concezione storicizzata della conoscenza, pensava alla fisica e più in generale alla scienza come a una costruzione intellettuale basata su «assunzioni prescientifiche, inconsce, involontarie e istintive scaturite dall’esperienza sociale e pratica degli esseri umani» (p. 53), assumendo una prospettiva antifondazionalista e ritenendo che le dimostrazioni della teoria fisica non consistessero nel ricondurre l’inintelligibile all’intelligibile, ma «nel ricondurre un’intelligibilità insolita e inusuale a un’altra intelligibilità ma più familiare e più nota» (ibidem), mostrando in questo un’affinità profonda col desiderio di Wittgenstein di «passare da un non senso occulto a un non senso palese» (Ricerche filosofiche, § 464). Ma è ancor più sorprendente la vicinanza con i fisici Hertz e Boltzmann, entrambi convinti che «le teorie fisiche non rispecchino le cose come esse sono in se stesse, ma costituiscano modelli attraverso i quali filtrare la realtà del mondo fisico. I modelli non colgono in trasparenza i fenomeni; piuttosto, tessono un sistema di relazioni concettuali entro le quali viene interpretato il flusso dell’esperienza» (p. 62). Considerando il pensiero la sede originaria delle condizioni di raffigurabilità della natura, Hertz mostra la sua influenza nella identificazione wittgensteiniana di pensiero e linguaggio, mentre Boltzmann offre un contributo fondamentale per l’idea della filosofia come chiarificazione dell’uso di concetti e parole. Il fisico tedesco riteneva infatti che si dovesse guardare ai problemi filosofici come a ‘confusioni concettuali’, l’insolubilità o la difficoltà dei quali non dovevano essere attribuite a un limite nelle capacità cognitive degli uomini, ma al loro carattere illusorio. «Tale carattere illusorio, così efficacemente denunciato da Boltzmann, si tradurrà più tardi nella concezione wittgensteiniana dei problemi e delle teorie filosofiche come mitologie, idealizzazioni e sublimazioni» (p. 67). E anche la wittgensteniana übersichtliche Darstellung sembra avere una anticipazione in Boltzmann, il quale, come ricorda Gargani, «aveva enfatizzato nelle sue opere di fisica teorica l’importanza di quella che definiva “una descrizione perspicuamente comprensiva”» (p. 68). La dissoluzione delle ‘mitologie filosofiche’ attraverso la ‘rappresentazione perspicua’ assume poi per Gargani la forma di un esercizio di riconoscimento del significato come una fisionomia (pp. 85-94). Si manifesta così l’idea di un linguaggio come «struttura chiusa autonoma che non porta responsabilità rispetto alla realtà» (p. 85), che introduce al tema della «dissoluzione dell’analiticità» (pp. 113-21). Il significato non è scoperto lungo le linee di un flusso che attraversa le espressioni linguistiche senza interruzione, intrinsecamente costitutivo del linguaggio e che trapasserebbe, sempre uguale a se stesso, i termini del discorso. Il significato – anche quello delle regole matematiche – è costruito in connessione con la prassi linguistica che lo circonda e con la nostra capacità di riconoscere e accettare un gioco linguistico. «È esclusivamente la prassi linguistica che connette le parole tra loro lungo la linea di un significato. Ma non c’è nessun flusso di continuità analitica tra le componenti di un enunciato» (p. 60). Si tratta di un elemento che Cavell ha sottolineato con enfasi, mostrando come le nostre capacità di accettazione e riconoscimento (acknowledgement) siano i luoghi originari della costituzione del senso delle proposizioni. Dice Gargani: «ogni passo nell’applicazione di una regola è un passo nuovo che va ogni volta deciso; non intuito o interpretato» (p. 103) e «l’inferenza tra premesse e conclusioni, la connessione significante tra i simboli, tra una formula e le sue applicazioni, non è qualcosa da giustificare o da prescrivere; piuttosto, è qualcosa da riconoscere e accettare nei simboli stessi» (p. 104). Ed è questa visione, così legata alla contingenza e alla fragilità delle nostre relazioni, che – come dice Cavell – è «tanto semplice quanto difficile, e tanto difficile quanto (e perché lo è) terrificante» (Cavell, Must we mean what we say?, Cambridge University Press, New York 1969, p. 52).

La parte conclusiva del volume riserva alcune importanti osservazioni all’etica, che, lungo le linee della riflessione di Diamond, Conant e Donatelli, viene pensata come una modalità dell’attività filosofica che, illuminando connessioni concettuali all’interno delle forme di vita, da un lato, «restituisce agli uomini concetti e parole che essi hanno perduto o che hanno dimenticato» (p. 137) e, dall’altro, costituisce una forma di «rigenerazione interiore» (ibidem), che attraverso il recupero di contesti immaginativi permette agli uomini di riconoscere se stessi e di riconoscere l’umanità negli altri (p. 138). Ed è proprio la ‘rappresentazione perspicua’ come metodo di delucidazione concettuale che ci viene qui in soccorso. Se i paradigmi grammaticali non sono raffigurazioni della realtà, ma rappresentazioni del ‘modo’ in cui la grammatica si riferisce alla realtà, è solo attraverso adeguati confronti tra diversi usi linguistici, tra prospettive e modi di vedere che riusciamo a ottenere una dissoluzione delle inquietudini filosofiche e una ‘trasformazione concettuale’ di noi stessi.

E’ difficile trovare punti generali di disaccordo con il bel libro di Gargani. Al di là di questioni di dettaglio, possiamo forse mettere in luce un certo attaccamento alla contingenza, all’istinto e all’assenza di certezze fondazionali tipico di Richard Rorty – al quale peraltro il volume è dedicato – che, lungi dal costituire un fraintendimento di Wittgenstein, rischia di non cogliere il fatto che il filosofo viennese, più che scagliarsi contro il razionale e il normativo, voleva fornircene – come Cavell e McDowell hanno illustrato – una nuova e più ‘realistica’ comprensione.

 

Gargani, Aldo Giorgio, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pp. XXV-178, € 19,80

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