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Federico Laudisa, Hume

 

 

 

recensione di Federico Morganti

 

Considerato l’intento introduttivo della neonata collana “Pensatori”, di cui costituisce l’ottava uscita, quello di Federico Laudisa è senza dubbio un testo molto utile, che presenta in modo completo e tutt’altro che banale un filosofo di non facile lettura. Sin dalle prime battute l’autore esprime la necessità di mostrare «il carattere profondamente sistematico e interconnesso della filosofia humiana» (p. 9), rispondente a un’esigenza di tipo ‘fondazionale’, in quanto imperniata sulla ricerca di pochi principi esplicativi, secondo lo spirito della scienza sperimentale. Sulla base di questa impostazione, ad avviso dell’autore, tre sono gli aspetti fondamentali da mettere in evidenza: la coesistenza nel pensiero humiano di aspetti costruttivi e altri di natura critica; la caratterizzazione ‘naturalistica’ della filosofia humiana; la natura e il ruolo dello scetticismo.

Il breve volume consta di quattro capitoli, corrispondenti ad altrettanti momenti del pensiero humiano: nel primo Laudisa effettua una ricognizione degli intenti generali dell’opera di Hume e del suo tentativo di indagare la natura umana da un punto di vista sperimentale; il secondo capitolo concerne la natura e i limiti della conoscenza secondo il filosofo scozzese; il terzo si sofferma sulla complessa teoria humiana delle passioni, sul ruolo cruciale da esse svolto e sul passaggio da queste alla dimensione morale; infine l’ultimo affronta la critica humiana della religione. In ciascuno di questi brevi capitoli, oltre a sintetizzare efficacemente le posizioni humiane, l’autore non lesina considerazioni critiche e osservazioni sul senso complessivo della proposta humiana, che valutino le singole tesi in un opportuno sguardo d’insieme.

Laudisa cerca subito di chiarire la natura del debito humiano nei confronti di Newton. Si tratta certamente di una questione molto dibattuta: secondo alcuni (Norman Kemp Smith, John Passmore e Nicholas Capaldi, tra i più autorevoli) vi sarebbe una completa adesione da parte dell’autore del Trattato all’epistemologia newtoniana e alle sue Regulae; secondo altri (tra cui Donald W. Livingston, Peter Jones e John P. Wright) l’influenza di Newton su Hume si riduce alla semplice “immersione” di quest’ultimo nel clima culturale della rivoluzione scientifica. Senza la pretesa di voler risolvere tale disputa, Laudisa nota l’insoddisfazione manifestata da Hume per la mancanza di rigore nella filosofia a lui contemporanea. Da questo punto di vista, il tentativo newtoniano di ricondurre una molteplicità di fenomeni a poche semplici leggi dovette costituire per Hume una fonte d’ispirazione di non poco conto, che si tradusse nella centralità del metodo sperimentale nel tentativo di individuare i principi fondamentali validi in ambito morale.

Quanto all’analisi humiana della mente, è possibile affermare che in Hume si realizza il tentativo di applicare la lezione empirista di Locke e Berkeley alla tradizione cartesiana. Hume, infatti, può a ragione essere definito un erede (sia pur critico) della tradizione filosofica inaugurata da Cartesio, la cosiddetta way of ideas. Secondo tale tradizione «la mente si configura come una sorta di luogo, sia pure astratto, nella quale il pensiero sembra letteralmente prendere forma. In questa caratterizzazione di luogo astratto, la mente manifesta la sua attività accogliendo un’immensa varietà di “oggetti” mentali, analizzandoli e ricombinandoli con l’aiuto di un certo numero di princìpi organizzatori. Inoltre […] la mente risulta trasparente a sé stessa e perfettamente accessibile a quell’analisi introspettiva che ciascuno può mettere in atto semplicemente “guardando dentro” il proprio io» (p. 20). Per Cartesio, Locke e Berkeley le questioni conoscitive sono in altre parole analizzabili mediante uno sguardo in prima persona ai materiali su cui la conoscenza si fonda, un aspetto che resterà fondamentalmente inalterato nel primo libro del Trattato humiano.

Il primo problema cui una filosofia empirista si trova a dover fare i conti è quello dell’esistenza di oggetti indipendenti dalla mente. È possibile, come aveva preteso Locke, ricercare un accesso al mondo esterno attraverso le sole idee? Evidentemente no; per quanto sofisticate possano essere le nostre operazioni con i materiali della conoscenza, è evidente che mai potremmo fare un passo al di là di essi, con buona pace della distinzione tra qualità primarie e secondarie. La ragione, secondo Hume, non sarà mai in grado di dimostrare l’esistenza del mondo esterno mediante la semplice considerazione delle proprie idee; tale conclusione andrà dunque intesa come una «“inferenza alla miglior spiegazione”: l’esistenza di una realtà esterna costituisce cioè la giustificazione più plausibile, semplice e concettualmente economica del perché le impressioni che si riferiscono al mondo esterno sia così costanti e coerenti» (p. 63).

Un altro problema fondamentale e molto dibattuto della filosofia humiana è quello dell’identità personale. Si tratta di uno snodo chiave nel passaggio dal primo libro a quelli successivi, al fine di capire quale sia l’operazione complessiva compiuta da Hume in sede epistemologica. Com’è noto, nella sezione del Trattato dedicata all’identità personale, Hume sostiene che, se tentiamo di cogliere introspettivamente il nostro io, non ci imbattiamo in nient’altro che in una semplice successione di percezioni, che sì sentiamo come nostre, ma tra le quali non riusciamo mai a cogliere l’io come percezione distinta: «Non riesco mai a sorprendere me stesso senza percezione e a cogliervi altro che percezione» (Trattato, 1.4.6). La trattazione humiana procede dunque con un’analisi del processo con cui la mente attribuisce l’identità a tale fascio di percezioni. Laddove la ragione è impotente, subentrano dei meccanismi psicologici di natura associativa che debellano lo scetticismo garantendo all’individuo una salda presa sugli oggetti del mondo. Il che permette a Hume di affermare: «Chiunque si è preso il disturbo di confutare i cavilli di questo scetticismo totale ha in realtà discusso senza avversari, e ha cercato di sostenere con argomentazioni una facoltà che la natura ha precedentemente ben piantata nella mente e resa inevitabile» (Trattato, 1.4.1). Un’affermazione che, a rigore, ricorre prima della citata sezione sull’identità personale, ma la cui portata è tale da ripercuotersi anche su quest’ultima: l’identità personale, la garanzia del nesso causale, l’esistenza degli oggetti esterni, sono tutti problemi in relazione ai quali la ragione dimostra la propria impotenza, non riuscendo mai ad arrivare là dove le nostre semplici capacità naturali giungono senza sforzo.

Ebbene, questa tendenza o capacità della natura umana di lasciarsi gli scetticismi “alle spalle” – ciò che costituisce l’aspetto costruttivo della filosofia humiana – si spiega in virtù della dimensione strettamente ‘sociale’ che le è propria. Si tratta di un punto ben comprensibile proprio nel caso dell’identità personale. In ultima istanza, è soltanto grazie alle passioni dell’orgoglio e dell’umiltà che Hume è in grado di reintrodurre senza contraddizione l’io come oggetto di riflessione filosofica, «ed è da questa rinnovata attenzione per l’io che passa quel processo di “riscatto” dello scetticismo sull’identità personale» (p. 85). In altre parole, l’impossibilità di un riferimento certo e stabile all’io da un punto di vista strettamente razionale, viene superata da Hume attraverso quelle passioni fondamentali, sollecitate e mediate dalla vita in società, che hanno l’io come oggetto. Non è mai a livello strettamente cogitativo che possiamo ottenere tale certezza, bensì soltanto in società, nello svolgersi quotidiano delle nostre relazioni con gli altri, ossia in quella dimensione più propria che compete alla nostra specie. L’identità, che dal punto di vista dell’immaginazione poteva ricevere nient’altro che una garanzia di tipo immaginativo-associativo, può essere corroborata compiutamente soltanto dalle ‘passioni’ nel loro esplicarsi sociale – il che significa, in una dimensione extra-filosofica prima ancora che filosofica. Così, partendo dalle passioni fondamentali dell’orgoglio e dell’umiltà, e dal recupero dell’io che esse permettono, Hume è in grado di costruire la propria teoria delle passioni nel II libro e la propria teoria etica nel III. Il libro di Laudisa procede a questo punto a una sintesi di entrambe, che passa per l’esposizione del principio di simpatia, la ridefinizione del rapporto tra passioni e ragione, la critica del razionalismo etico e l’approdo a una peculiare concezione del senso morale.

Il libro si conclude con un capitolo dedicato alla critica humiana della religione. Senza procedere a un riassunto dell’esposizione di Laudisa – che costituirebbe una sterile “sintesi della sintesi” – basti qui menzionare che, oltre alla consueta ricapitolazione delle tesi humiane (nella fattispecie, la critica agli argomenti sull’esistenza di Dio e la rivendicazione dell’autonomia della moralità dalla religione), l’autore ha il merito di fornire una breve ma utile descrizione del contesto entro cui si inseriva l’intervento di Hume. In particolare, scrive Laudisa, tale intervento «si compie sullo sfondo di una cultura come quella britannica del XVII e XVIII secolo, che si divide tra pensatori favorevoli alla tradizione teologica cristiana (o addirittura difensori militanti) e pensatori che a torto o a ragione venivano catalogati come “atei” e irreligiosi e la cui filosofia veniva additata come dotata di implicazioni potenzialmente distruttive dal punto di vista […] anche etico e civile» (p. 107). Con opere quali Storia naturale della religione e Dialoghi sulla religione naturale, e saggi come Sul suicidio, L’immortalità dell’anima e altri, Hume si schierava al fianco di pensatori come Hobbes, Spinoza e Bayle le cui filosofie, pur nella grande diversità di toni e soluzioni, costituirono una sfida di non poco conto nei confronti dell’ortodossia religiosa e della corrente dei religious philosophers quali Boyle, Clarke e lo stesso Locke. Proprio da Locke e Clarke, Hume ricavava l’argomento a priori a favore dell’esistenza di Dio, di cui avrebbe fornito la propria confutazione nei Dialoghi, mentre nella sua forma più propriamente anselmiana-cartesiana tale argomento era criticato (sia pur senza nominarlo esplicitamente) nel Trattato (1.3.7), sulla base della concezione humiana della credenza. Quanto all’argomento a posteriori o argument from design, si tratta di un argomento che Hume ricavava sostanzialmente da Newton, per quanto fosse tutt’altro che ignaro della presenza di tale argomento nel De natura deorum di Cicerone.

In conclusione, sebbene il succinto testo di Laudisa non abbia in fondo grosse pretese critiche, proponendosi semplicemente come un’introduzione, va tuttavia sottolineata la sua capacità di cogliere importanti snodi problematici della filosofia humiana, un aspetto in cui spesso falliscono commentatori ben più ambiziosi. Ciò fa di tale volume un ottimo strumento per chiunque voglia avvicinarsi a questo importante filosofo.

 

Laudisa, Federico, Hume, Carocci, Roma 2009, pp. 144, € 13

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