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Chiara Cappelletto, Neuroestetica

 

 

 

 

recensione di Sara Campanella

 

Se è decisamente troppo ricercare una descrizione scientifica del processo creativo, altrettanto non sembra essere per il tentativo di ricucire la divaricazione tra cultura umanistica e scienza. Non è un caso che questo tentativo scaturisca in prima istanza dalle indagini delle neuroscienze cognitive, che ormai da almeno due decenni si interrogano sulla possibilità di dar conto dell’esperienza fenomenica individuale senza abbandonare il campo biologico di riferimento. L’esigenza di salvaguardare la peculiarità dell’esperienza umana e il tentativo di comprendere la stessa sotto il profilo di un’ottica integrata che faccia del corpo non un mero organo esecutorio, ma il protagonista cosciente delle sue variegate manifestazioni, caratterizzano il modo di procedere delle neuroscienze, su cui tuttavia non manca di concentrarsi un’attenzione ossessiva, per così dire «cerebrocentrica», che, in nome della cosiddetta «neurocultura» (p. 9), rischia di schiacciare sui neuroni qualsiasi espressione umana, dalla percezione all’arte, dalla memoria all’etica. Se, come emerge chiaramente, non è più convincente ammettere una lacerazione interna all’uomo che separi la vita cognitiva dalla formazione di quelle strutture organiche indispensabili per il suo dispiegamento, in che modo e secondo quali prospettive le teorie sul cervello e il funzionamento del nostro corpo possono aiutarci a comprendere meglio l’attività umana? E, ancor più in dettaglio, come può l’arte e la sua costellazione di senso essere avvicinata alle neuroscienze?

Su questi e altri interrogativi tenta di riflettere criticamente il saggio di Chiara Cappelletto, ricercatrice di Estetica all’Università degli Studi di Milano e già autrice di altri volumi attinenti all’espressione e alla rappresentazione artistica (Figure della rappresentazione. Gesto e citazione in Bertold Brecht e Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2002 e Il rito delle pulci. Wittgenstein morfologo, Il Castoro, Milano 2004).

In via preliminare possiamo affermare che, venuto meno il modello meccanicistico della mente, il funzionamento selettivo dei processi neuronali ha finito per prendere piede riabilitando la centralità dell’interazione storico-sociale dell’uomo nello stesso sviluppo delle trame sinaptiche. Su questa base la comprensione scientifica del cervello non sembrerebbe in contrasto con la natura ‘qualitativa’ dell’esperienza emozionale; tuttavia, dimostrata l’inesistenza di un tal conflitto e fatto salvo il corpo come denominatore comune, come far dialogare in modo fecondo l’espressione artistica e il cervello? Infatti, un conto è intrecciare il regno di competenza dell’una con quello dell’altra, ad esempio mediante casi di “traduzione artistica” del patologico, ben altro è suggerire la possibilità di inaugurare una modalità di comprensione dell’opera e della sua fruizione attraverso l’analisi funzionale del cervello. Il saggio in questione è piuttosto netto nel prendere posizione contro quest’ultima impostazione, incarnata perlopiù dagli studi di S. Zeki che, proprio nel 1999, coniava il termine ‘neuroestetica’. Se, però, non vogliamo ignorare il dibattito crescente che la scienza continua a ingaggiare con le arti e, al contrario, decidiamo di sondarne criticamente i presupposti e le derive, allora bisogna riconoscere la pluralità di approcci che un termine come ‘neuroestetica’ finisce per abbracciare in modo confuso. Neuroscienziati come Zeki, Changeaux o Ramachandran, pur adottando ottiche divergenti, si richiamano agli studi pionieristici di Hans Gombrich e Rudolf Arnheim, che avevano integrato le teorie psicologiche della percezione di matrice gestaltica con le loro indagini estetiche, riannodando sul piano dell’aisthesis due ambiti progressivamente allontanatisi fin dalla seconda metà del ’700. Tuttavia, questa traccia, su cui collocare gli studi delle neuroscienze applicate all’arte, sembra contrastare con quanto esse effettivamente propongono. Infatti, oltrepassando il campo dell’analisi percettiva, molti contributi redatti in questo ambito finiscono per “dimenticare” l’opera e rimanere imbrigliati nel cervello. Tenendo presente che la formazione di questo sapere sembra muoversi su almeno tre assi, «la neurocritica dell’arte, la neurostoria dell’arte e la neuroestetica propriamente intesa» (p.15), e ammesso che ne valga la pena, quale ‘neuroestetica’ salvare?

La risposa a questa domanda giunge solo dopo un’attenta analisi degli “assi di orientamento” della fluente produzione che la studiosa, nonostante l’esiguità del testo, ricostruisce fornendo un buon numero di esempi e una buona bibliografia sull’argomento. Spesso la neurocritica dell’artista, dell’opera e del fruitore ha finito per rivelarsi un’analisi in vitro profondamente “distratta” dall’artisticità dell’immagine per volgersi invece all’indagine medica. Che Francis Bacon soffrisse di dismorfofobia, de Kooning di Alzheimer o De Chirico di emicranie con aura allucinatoria, per non parlare dei numerosi casi di epilessia, non sembra attenere molto all’analisi estetica dell’opera quanto «a un tratto voyeuristico molto forte rivolto alla vita dell’artista che fu» (p. 25) o a un modo di considerare l’opera come ‘sintomo’ o, come direbbe A. Chatterjee, ‘prova neuropsicologica’. Forse più problematica appare l’analisi di D. Morris (Biologia dell’arte, Bompiani, Milano 1969) che a partire dal successo ottenuto dai quadri di Congo e Betsy, due scimpanzé, indaga le basi neurobiologiche della produzione grafica suggerendo dei principi biologici dell’arte, tra cui il controllo compositivo, la differenziazione calligrafica o l’eterogeneità ottimale, per cui il pennello è deposto solo quando il quadro si ritiene ‘finito’, che mettono in imbarazzo o aiutano a raccapezzarsi meglio su cosa sia arte. La solitudine del malato e il dramma di persecuzione o esclusione sociale ha poi alimentato un’attenzione verso una ‘iconografia del patologico’ che certamente ha stimolato il confronto con le discipline medico-biologiche, senza tuttavia giustificare un’analisi fisiologica dell’arte. Un’impresa di questo tipo non destituisce l’arte del suo senso? Quale allora la differenza tra la teca con uno squalo in formaldeide presso un museo di scienze naturali e quella di Damien Hirst in una galleria d’arte contemporanea? La linea neuroestetica di S. Zeki sembrerebbe del tutto priva di strumenti non solo per spiegare, ma forse anche per rilevare una tale differenza. L’arte, per il neuroscienziato Zeki, è un campo sperimentale di indagine che può testimoniare i principi e le regolarità della percezione che orientano tanto la produzione che la fruizione dell’opera. Se Mondrian realizzava le sue tele in base alla risposta selettiva delle cellule della corteccia visiva all’orientamento delle linee, allora «l’artista è un neurologo in azione, che non solo conosce le leggi del cervello ma le sa mettere in pratica» (p. 55). Se questo è vero, una volta conosciuto l’artista, dovrebbe essere possibile figurarsi la sua produzione, ma, con buona pace di Zeki, questo «antipigmalione che attesta la “realtà”» (p. 65), non sembra affatto accadere questo. Se allora vogliamo avvicinare in modo fecondo gli studi sul cervello alla ‘seconda natura’ dell’uomo, inclusa l’esperienza artistica, Cappelletto ribadisce il bisogno di recuperare una certa portata teorica nel magma delle neuroscienze, quella cioè che sa distinguere «la predisposizione organica a essere stimolati per via sensibile da un lato, e l’esperienza attiva, vissuta e condivisibile della sensibilità dall’altro» (ibid.). La chiave ‘fenomenologica’ adottata riconquisterebbe il terreno del corpo come campo di convergenza tanto degli studi sul cervello quanto di quelli sull’arte. Su questa scia, l’analisi del neuroscienziato Ramachandran, ad esempio, sottolinea le reazioni che il nostro sistema nervoso produce in relazione alla fruizione di un’opera d’arte, evidenziandone l’apporto del sistema limbico, che presiede alla sfera emozionale e valutativa degli eventi. «Il visibile, come processo dinamico di emersione e accordo del mondo circostante in cui lo spazio ottico del contorno e lo spazio patico del suono, dell’intorno, collaborano» (p. 79) si palesa nella valenza metaforica accordata alla sinestesia che la tradizione fenomenologica francese, con Merleau-Ponty in primo piano, ha tematizzato, per recuperare l’identità personale attraverso il primato percetto-sensoriale dell’integrazione corporea sui singoli percetti. Così la neurostoria dell’arte, altro asse di orientamento dell’indagine proposta dalla studiosa, analizza la storia della fruizione dell’opera facendo leva proprio su questa originaria capacità percettiva dell’uomo, che estroflette l’incidenza emotiva degli eventi nell’immagine artistica pur rispettando tanto l’elemento idiosincratico di ogni singola opera quanto il peculiare plasmarsi nel tempo di ogni singolo cervello. Il rapporto tra scienza e arte, dunque, non può essere ridotto alla lunga storia di raffigurazione della prima da parte della seconda o a un’indiscriminata riduzione da parte di qualche scienziato poco accorto della seconda alle impalcature vuote della prima; al contrario questo rapporto va colto nell’individuazione dell’uomo come soggetto di integrazione emotivo-cognitiva di cui sia scienza che arte sono manifestazioni nel tempo. Uno degli esempi certamente più decisivi in questo senso è rappresentato dal dibattito suscitato dalla scoperta dei ‘mirror-neurons’, ormai di dominio mondiale, che, grazie alle sperimentazioni sull’eco motoria dei gesti transitivi e/o intransitivi nell’uomo ricostruisce mediante una nuova chiave gli studi sulla cognitività motoria ed empatica del nostro organismo stimolando innumerevoli ricerche in un campo artistico come quello teatrale, ma anche nella rilettura dell’analisi di Lessing del complesso scultoreo del Laocoonte.

La neuroestetica, che ripensa la «con-formazione di mente, corpo e ambiente sotto il segno della plasticità cerebrale» (p. 151) così da integrare nella stessa materialità dell’uomo la sua esperienza vissuta, diviene allora un terreno interessante anche per comprendere come l’arte esibisca l’uomo e le sue inesauribili stratificazioni di senso. Se anche questa propaggine conduca a un progressivo depauperamento dell’arte, o a un mero vicolo cieco da cui è preferibile uscire al più presto, ancora non ci è possibile giudicare. Certamente però, il saggio di Cappelletto ha il merito di offrirne una breve introduzione critica senza misconoscerne l’idoneità a «riassorbire la separazione di cultura e natura, persona e organo, teoria ed esperimento» (p. 155).

 

Cappelletto, Chiara, Neuroestetica. L’arte del cervello, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 208, € 12

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