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Margaret Clunies Ross (a cura di), Old Icelandic Literature and Society

 

 

 

 

recensione di Rodolfo Ciuffa

 

Un gruppo di esperti di letterature scandinave ha riunito e sintetizzato in un volume specialistico, ma non stricto sensu accademico, le ricerche più rilevanti sulla letteratura islandese medievale. I tredici saggi raccolti nel volume analizzano i modi e i contenuti della produzione letteraria islandese nel periodo che va dalla colonizzazione dell’isola (IX sec.) sino al XV secolo – poco dopo la perdita dell’indipendenza – mettendoli in relazione con gli eventi politicamente e sociologicamente più significativi della storia islandese medievale.

Il dato, che gli autori non mancano di sottolineare e confermare a più riprese, di una fertilità culturale straordinaria nell’Islanda medievale, sembra la base non solo accademica ma anche, in qualche modo, ‘emotiva’, che spiega questa operazione di indagine e sintesi: come è possibile che una popolazione dalle dimensioni ridotte, povera, isolata, sia riuscita a dare vita ad una pletora tanto vitale e influente di forme letterarie? C’è uno stupore che pervade quasi ogni pagina del libro, una sorpresa che la stessa Margaret Clunies Ross, curatrice del volume e firma del quinto saggio, The conservation and reintepretation of myth in medieval Icelandic writings, esprime nella sua introduzione all’opera. L’approccio spiccatamente e dichiaratamente sociologico dei saggi vuole tramutare questo stupore interrogativo in risposte di natura socio-strutturale sull’origine e la funzione delle diverse forme letterarie che via via gli islandesi, dal periodo dell’insediamento sino al basso medioevo, sono stati in grado di sviluppare. Non è un caso che il primo saggio, firmato da Preben Meulengracht Sfrensen (già professore a Oslo e Aarhus), fornisca una panoramica sulla società, le istituzioni e i principali sistemi di credenze – l’immaginario collettivo – degli abitanti di quella che Manganelli avrebbe suggestivamente chiamato l’isola pianeta.

Il libro è organizzato in due parti, la prima delle quali (capp. 2-6) affronta i temi legati al passaggio dall’oralità alla scrittura e alla produzione poetica, mentre nella seconda, che copre i rimanenti capitoli, si rende conto delle creazioni prosastiche.

La poesia islandese riprende e sviluppa due generi cari alla cultura scandinava medievale, il genere eddico e quello scaldico, entrambi oggetto di analisi nel secondo e nel terzo capitolo dell’opera, firmati rispettivamente da Judy Quinn e Kari Ellen Gade. La poesia scaldica è una poesia eulogica e panegirica, un’elaborata poesia cortigiana tutta intesa alla celebrazione delle gesta del committente o di qualche altro potente. Il genere eddico viene considerato il complemento popolare della poesia scaldica, trattandosi di un genere disadorno, perlopiù anonimo, incentrato non tanto sulla costruzione di peana quanto sulla narrazione di miti e più fantastici eroismi. Kari Ellen Gade, nel saggio Poetry and its changing importance in medieval icelandic literature, delinea anche un’accurata distinzione formale e stilistica fra i due generi, mentre Gísli Sigurdsson, nel saggio seguente, cerca di ricostruire la percezione e la classificazione della poesia scaldica da parte degli islandesi medievali a partire dal The Third Grammatical Treatise di Olafr Pordarson, già nipote di Snorri Sturlson, una delle più importanti fonti per quanto riguarda la poesia eddica, la cui opera viene ripresa nel succitato saggio di Clunies Ross.

La seconda parte del volume, come detto, si snoda attorno al problema della produzione in prosa. I capitoli di cui consta questa seconda parte convergono sostanzialmente intorno a tre principali generi e tematiche: il genere storiografico, la saga e le diverse narrazioni ad essa ispirate, e, infine, la letteratura fantastica al cui fiorire si assiste a partire dal XII secolo.

Diana Whaley, Juerg Glauser e Gudrun Nordal (capp. 7-9) trattano i primi due generi. La storiografia e la saga sono due generi strettamente interconnessi, giacché alcune saghe, in particolar modo la Sturlung Saga, mirano a un’attendibile ricostruzione di eventi storici in un determinato periodo, ancorché l’affidabilità storiografica di quest’ultima sia ampiamente discussa e discutibile.

Agli islandesi arrise una certa notorietà presso le corti danese e norvegese non solo come poeti ma anche in qualità di cantastorie e storiografi, ed è in questa sede che poterono profondere i loro sforzi di testimoni del tempo. La necessità di tessere e recuperare in forma non transeunte la loro storia scaturì anche e soprattutto dalla giovinezza del loro stato e si riversò pertanto nelle saghe con intenti non solo annotativi ma decisamente fondativi, genealogici e mitopoietici, come sembra testimoniare la prima opera storiografica sopravvissuta ai secoli, l’Islendigabok di Ari Porgilsson. Quest’opera certifica, a dire di Whaley, un’altra fondamentale caratteristica sulla quale si soffermano frequentemente i diversi autori della silloge: l’influenza della matrice cristiana sulla cultura islandese a partire dall’anno 1000, quando il nuovo credo venne esportato nell’isola affiancandosi alla tradizione pagana.

La varietà caratterizzante lo stesso genere della saga sembra essere in parte dipesa dal carattere fortemente decentralizzato, decentrato e amonarchico della piccola nazione islandese, nella quale l’assenza di una figura centrale detentrice di un potere sovrano venne controbilanciata dalla suddivisione del territorio in piccole regioni e comunità locali e dalla gestione assembleare della loro amministrazione. Questa frammentazione sarebbe all’origine di un simmetrico policentrismo culturale, nel quale diverse ispirazioni ed esigenze, diverse commissioni e diversi fruitori, paganesimo e cristianesimo, tradizione scandinava e originale vocazione letteraria islandese, la fondazione recente di un nuovo stato e la sua inusuale organizzazione politica, si sarebbero variamente miscelate esitando in una straordinariamente variegata produzione culturale.

Non per nulla Ian Kirby e Margaret Cormack, negli ultimi due capitoli del libro, analizzano l’impatto del cristianesimo sulla società islandese, il problema dell’esegesi biblica nella neoindottrinata Islanda e il maturare del genere agiografico, che per la prima volta metteva in scena e dava spazio letterario alle donne e ad altre parti della società tradizionalmente trascurate.

I capitoli decimo e undecimo, che fanno da cerniera fra gli ultimi del libro e i saggi dedicati al genere della saga ‘degli Islandesi’, descrivono un altro genere di saga che è stato da molti considerato marginale – un tentativo di fuga dalla realtà a seguito della conquista norvegese dell’Islanda e nel quadro di un generale decadimento culturale - la fornaldasoegur Nordurlanda, che si situa nell’ambito della letteratura fantastica. Torfi H. Tulinius e Geraldine Barnes sottolineano due fondamentali aspetti di queste opere relegate ingiustamente nel dimenticatoio della letteratura d’evasione. Tulinius la situa nella tradizione Occidentale della letteratura fantastica, ricordando come la fantasia sia stato l’escamotage e il mezzo grazie al quale i campioni della letteratura europea hanno potuto affrontare i problemi dell’ambiguità e della crisi d’identità: e non da meno furono gli islandesi, che in un certo qual modo proprio questo dilemma identitario – un precipitato di drammatici rivolgimenti e stravolgimenti sociopolitici – cercano di affrontare nella loro fornaldasoegur. Barnes pone invece l’accento sull’aspetto ironico di queste pagine di letteratura islandese, un’ironia critica come mezzo di critica al potere, non già pertanto un trampolino verso un altrove anelatamene diverso dall’hic et nunc.

Old Icelandic Literature and Society si pone un compito e una missione che sono ben sintetizzati nel titolo. Con mossa consuetamente introduttiva, la curatrice non lesina parole su quanto nel libro non è stato riportato, analizzato, sviscerato e interpretato, sulla ricca galleria di opere e generi eccedenti i limiti del volume, ma non meno importanti di quelli contenutivi. Memore del caveat il lettore chiude nondimeno il volume soddisfatto da un’opera piuttosto omogenea, chiara e chiaramente articolata, pur forse un po’ carente per quanto riguarda il richiamo di estratti testuali e la citazione diretta dalle opere di cui si tenta letterariamente e sociologicamente di rendere conto.

 

Clunies Ross, Margaret (a cura di), Old Icelandic Literature and Society, Cambridge University Press, Cambridge 2009, 352 pp., £ 22,99 

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