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Eleonora De Concilis, Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia

 

 

 

 

recensione di Enrico Schirò

 

Sulla soglia del XX secolo, al detour dell’ultima figura di un’Europa produttiva, industriale, egemone e imperialista, gran parte della riflessività continentale alzava la voce additando la crisi, il tramonto, l’abbandono, la fine dell’Occidente. Quali che fossero i contesti culturali di provenienza di questi moniti – dall’irrazionalismo alla fenomenologia, con tutte le dovute differenze – e le prognosi proposte, la diagnosi sembrava piuttosto chiara: la scomparsa radicale dell’essenza stessa dell’Occidente. Questa fine ingloriosa non ha poi mai smesso, nel corso del secolo, di terminare e di inquietare intellettuali e scrittori, fino a giungere a noi, attraverso un rovesciamento ‘nichilistico’, come fine della storia o postmodernismo.

Eventi più recenti hanno riacceso gli animi di chi, alla fine della fiera, non aveva mai creduto troppo nell’ending nichilista. Se n’è tratta la conclusione che della storia non ci si può appropriare, né affermandone, né negandone il corso, e che in qualche modo questa resta un meccanismo quasi naturale di sovra-determinazione degli individui dal quale non è concesso intervallo: tra i resti di un progressismo impaurito e un conservatorismo aggressivo, si fa notare solamente il carattere di urgenza del presente.

Questa urgenza si affaccia spesso accanto a qualche evento che irrompe nella rappresentazione della nostra contemporaneità, un evento, dico, che ha tutte le strutture narrative di un qualcosa di ben determinato: una storia, una situazione, uno smacco, una scoperta.

Molte sarebbero le domande scettiche che potremmo porre a coloro che muovono le fila della gestione di questi eventi, ma al di là di questo scetticismo politico, Eleonora De Concilis, nel suo ultimo libro intitolato Pensami, Stupido!, propone una nuova versione dei fatti.

Qualcosa come una fine, effettivamente, si sta affacciando sul nostro pianeta – e da più di un secolo oramai – e tuttavia questo qualcosa non è un evento, visibile o narrabile, ma un rovesciamento, tanto più funzionante quanto meno appare sulla scena delle nostre preoccupazioni.

L’essere umano, come specie biologica sviluppatasi occupando una nicchia ecologica, potrebbe scomparire, o magari far scomparire il suo ambiente, la sua nicchia, la sua condizione di possibilità, per colpa della sua stupidità. «L’inquinamento della terra», afferma l’autrice, «è un primo, drammatico esempio di cretinismo planetario dell’uomo» (p. 39). Beninteso, questo è solo un esempio. Il lavoro di Eleonora De Concilis non si incentra sul rapporto tra stupidità cognitiva e depauperamento delle risorse ambientali, né sul problema ecologico in generale. Piuttosto intravede nella nostra condizione – moderna, ipermoderna, postmoderna che sia – un pericoloso rovesciamento del pensiero, un istupidimento sociale e culturale che non ha nulla a che fare con una crisi dei valori tradizionali. Mostriamo alcuni aspetti di questa stupidità postmoderna.

C’è il ritorno del religioso – dalla costosa Scientology alle versioni semplificate del cristianesimo per gli ‘ultimi’ – come «supporto identitario […], religione terapeutica, consumata come un oggetto che promette, magari anche per un breve periodo, di sollevare l’individuo dal disagio psichico o dall’insignificanza sociale» (p. 137). C’è la paura della solitudine, scongiurata con i nuovi mezzi di comunicazione di massa – web, chat, social networks – che provvedono, affermavano già Horkheimer e Adorno «ad eguagliare gli uomini isolandoli» (p. 141), privandoli di un rapporto con l’altro ‘da farsi’ e lasciandoli «in un presente puntuale e autoreferenziale» (p. 142), in cui gli imbecilli fanno sesso performativo e collezionano rapporti che non permettono l’elaborazione della dipendenza dall’altro.

Ci sono, accanto a quelle affettive, le trasformazioni cognitive dei mass-media che producono ‘video-bambini’ – come sostiene Sartori sulla scia di Popper – che pensano e agiscono ma «non si piegano come soggetti: non sono in grado di inventare un senso per il loro vissuto» (ibidem). Ci sono i nuovi dispositivi confessionali individuati da Baudrillard – a partire dalle analisi di Foucault sul potere confessionale disciplinare o psicoanalitico – dei reality (p. 144).

Le tecnologie, intese da McLuhan come estensioni dell’uomo, diventano piuttosto espulsioni di quest’ultimo. Molto utile a tal proposito è, di nuovo, il riferimento a Baudrillard – pensatore che l’autrice conosce molto bene – a proposito della scomparsa della «fatica del pensiero» (p. 145). Ritorneremo su questo punto in conclusione.

Ad una prima impressione, contrariamente a quanto finora affermato, la scena apocalittica dipinta dall’autrice suona come un Ge-Stell: religiosità take away, pervertimento diabolico delle relazioni e delle cognizioni ad opera della comunicazione di massa, carattere finzionale del ‘vero’ e imperialismo tecnologico sono gli aspetti classici di quel genere letterario, che nel corso del secolo scorso è stato l’apocalittica culturale (Spengler, Evola, Heidegger per citare i volti noti). Ma a porre fede in questa prima impressione commetteremmo un duplice errore.

In primo luogo, la critica mossa alle forme quotidiane del cretinismo postmoderno è politica e non ontologico-morale e si incentra sul concetto di ‘potere pastorale’ elaborato da Nieztsche e Foucault. In secondo luogo, a voler recuperare un’anima heideggeriana dalle argomentazioni dell’autrice, più che al Ge-stell dovremmo guardare alla Sorge di Sein und Zeit. «Quanto più la cultura occidentale impone agli individui ormai follemente mediocrizzati di ‘lavorare su se stessi’ […] tanto più tali individui tendono ad affidarsi non a poteri, bensì a ‘servizi’, oppure ad altri individui, anch’essi mediocri, che promettono benessere, fortuna, soldi, ecc…» (p. 150).

‘Potere pastorale’ e Sorge trovano qui una curiosa articolazione comune, al di fuori però, come vedremo, di qualsivoglia prospettiva ontologica. Nel corso dell’analitica esistenziale condotta da Heidegger in Sein und Zeit si affaccia una distinzione interessante: nel rapporto con l’utilizzabile intramondano il modo d’essere del Dasein è un ‘prendersi cura’, mentre nel con-essere l’altro Dasein non è incontrato nel quadro del prendersi cura, ma dell’‘aver cura’. Ora, i modi positivi dell’aver cura, sostiene Heidegger, hanno due possibilità estreme: «l’aver cura può in certo modo sollevare gli altri dalla ‘cura’, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto» (M. Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Longanesi & Co. 1976, p. 157) o, come anche si esprime il filosofo di Messkirch, ‘estromettendoli’, oppure, «anziché porsi al posto degli altri, li presuppone […] non già per sottrarre loro la ‘Cura’, ma per inserirli autenticamente in essa». Se nel primo caso «gli altri possono essere trasformati in dipendenti e in dominati», nel secondo gli altri vengono aiutati a «divenire consapevoli e liberi per la propria cura» (M. Heidegger, op. cit, p. 158).

Le due opzioni sono quindi speculari al rapporto che si instaura nella contemporaneità tra il customer care dei servizi e la foucaultiana cura di sé, mostrando come sull’asse dell’essere-per si giochi il senso politico del potere.

L’analisi di Eleonora De Concilis sulle forme postmoderne della stupidità, quindi, articola il problema politico del ‘potere pastorale’ con quello delle strategie di resistenza a questo stesso potere ed è quindi ben lungi dall’aspettarsi una soluzione nel recupero morale o ontologico di un’essenza originaria perduta nel tempo. Essa inoltre, escludendo l’atmosfera ‘conservatrice’ tipica dell’apocalittica culturale, può recuperare, in maniera a nostro parere molto feconda, l’analitica esistenziale di Sein und Zeit, nella misura in cui il problema della stupidità, colto nella prospettiva dell’economia postmoderna dei servizi, appare legato a doppio filo con la relazionalità dell’essere umano.

Pensami, Stupido! non appartiene, quindi, all’apocalittica culturale, sebbene si appropri di una buona parte della materia di questo genere letterario, ma si propone piuttosto come una critica politica di una condizione storica particolare; una critica che si incentra su una concezione non ontologica – quanto piuttosto genealogica – della relazionalità umana, intravedendo in questa sia il territorio di disciplinamento del potere (es. l’economia dei servizi), sia la riserva di resistenza alla produzione di stupidità dei nuovi poteri pastorali (es. la cura di sé).

L’autrice deve quindi descrivere ‘che cosa’ sia la stupidità in una prospettiva genealogica – all’analisi è dedicata gran parte del libro e si sviluppa nel secondo, terzo e quarto capitolo – e proporre, poi, una possibile ‘terapia’.

La prima complicazione si presenta, immediatamente, al momento di dover rispondere ad una domanda ontologica (che cos’è la stupidità?), rifiutando però la prospettiva fondazionale/finalistica dell’ontologia. Per rovesciare l’ontologia in genealogia Eleonora De Concilis propone una teoria socio-naturale del pensiero come comparazione, sviluppandola in buona misura a partire da una lettura critica di Gilbert Simondon. «La comparazione […] permette di eliminare dall’individuazione umana ogni residuo ontologico», perché quest’ultima non è una sostanza, ma un ‘processo’ comparativo o relazionale: «l’individuo si individua» afferma Simondon «nella misura in cui percepisce altri esseri» (p. 28). La differenza interindividuale non è, ma accade, si produce nella comparazione, che è, prima di tutto, un confronto di potere. «Mangiare o essere mangiati, afferrare o essere afferrati. Si percepisce l’altro come un’entità simile, ma allo stesso tempo più forte, o più debole, o desiderabile, perché diversa» (p. 25). In questo modo il pensiero, in quanto relazione speculare di comparazioni tra due soggetti, non può scindersi dal suo ‘altro’, sia questo follia o stupidità, e assume immediatamente una connotazione politica.

A questo proposito, di notevole interesse è la critica mossa alla soggettività cartesiana a partire dalle tesi speculari di Foucault e Derrida sul cogito. La soggettività cartesiana fondandosi come soggetto ab-solutus, isolato, irrelato, rispetto alla memoria, al sapere tradizionale e quindi al potere educativo, si rovescia nel doppio paranoico del potere dal quale vuole affrancarsi. «Con il dubbio iperbolico», scrive l’autrice, «e l’ipotesi del genio maligno […] Cartesio voleva liberarsi in maniera definitiva […] della già millenaria servitù della filosofia nei confronti del potere pastorale, quindi della superstiziosa stupidità in cui essa poteva cadere se rimaneva ancora schiava di tale potere e delle sue false opinioni» (p. 162).

Si può ricordare en passant che il metodo cartesiano, fondato sull’attenzione e sul risparmio energetico offerto dall’intuizione, riposa in buona misura su delle supplenze sensibili (memoria, immaginazione, scrittura), alcune delle quali – figure geometriche e segni algebrici – attivate da un certo uso della mano; la stessa mano che Descartes, raggiunta l’età matura, aveva sottratto alla bacchetta del maestro (manum ferulae subduximus).

Ora, questa liberazione dal ‘potere pastorale’, dall’educazione giovanile e dalle credenze mal fondate – questa liberazione della mano – apre non solo al partage ragione/sragione, come voleva Foucault, né soltanto all’irrazionale inclusione della follia nel cuore della ragione, come aveva risposto Derrida, ma anche alla specularità tra pensiero e idiozia paranoica. Per fondare se stesso come evidente, il cogito deve costruire un dispositivo pastorale finzionale (il genio maligno) da cui poter affrancarsi attraverso l’intuizione: cogito, ergo sum. «Se io», scrive l’autrice, «sono in grado d’immaginare un dio che mi inganna, mi tratta da stupido, allora non sono stupido, perché quel genio maligno l’ho prodotto io, è il frutto della mia potentissima immaginazione» (p. 163).

È l’autismo e l’idiotismo della ragione, che si isola da ogni esperienza utilizzando strumentalmente il dubbio per fondare se stesso; senza l’intervento di Dio, senza la corrispondenza tra le due sostanze, «Cartesio non ne sarebbe mai uscito» (p. 164). Il soggetto non può isolarsi dalla comparazione, né la ragione, la follia o la stupidità offrirsi ad uno sguardo ontologico che ne voglia cogliere l’essenza. Così, non si potrà più dire cosa sia il pensiero in generale, ma solamente chiedersi chi sia dotato di pensiero, chi sia stupido e chi sia, invece, folle, trasportando in questo modo l’indagine ontologica su un territorio genealogico.

Un territorio che, tuttavia, si presenta da subito malfermo, per via, appunto, della differenzialità dell’individuazione: chi sosterrà di essere saggio, colto, dotto, sarà lo stupido. È su questa instabilità strutturale della relazione tra sapere, stupidità e follia che la filosofia – lusso cognitivo dell’evoluzione umana – può mettere in gioco la sua natura anti-pastorale e rivoluzionaria.

Contro la stupidità sociale e contro l’idiotismo culturale – l’autrice prende ad esempio l’autoreferenzialità del sapere accademico e la moda del counseling filosofico e della formazione permanente – la filosofia è l’unico sapere che esponendosi al rischio della stupidità può rovesciarne gli effetti. Secondo Eleonora De Concilis questa capacità terapeutica del sapere filosofico non è da ascriversi ad una sua specifica proprietà curativa. Anzi, proprio per la mancanza di questa la filosofia può solo fingersi counseling, sposando, in realtà, le forme contemporanee del ‘potere pastorale’ e asservendosi di fatto ad esse.

Più che una proprietà terapeutica, il sapere filosofico è esposto strutturalmente al rischio della stupidità: l’identificazione filosofica è, da una parte, quella di chi contesta la validità dei saperi tradizionali (Socrate è una figura esemplare di questa dinamica critica, ma lo stesso Cartesio si inscrive in questa tendenza contestataria), fingendosi stupido e folle di volta in volta, dall’altra quella di un soggetto che, comparandosi con l’altro, gode dell’esclusività, del lusso, del suo sapere.

Come il cogito, il soggetto filosofico può finire per costruire un mondo a parte in cui muoversi con sovranità assoluta, chiudendosi in un autismo della ragione. È questo rischio strutturale, questo stare al limite dell’autoreferenzialità e della stupidità che rende il sapere filosofico l’unico adatto a contestare il ‘potere pastorale’ e la proliferazione di stupidità del postmoderno.

«Nella filosofia», scrive l’autrice, «c’è l’elemento erotico-metamorfico, oltre che logico-rappresentazionale, della comparazione»; qualcosa come una doppia anima, una duplice natura (p. 169). Ma allora la filosofia dovrà «uscire da sé e guardarsi dal basso», mettersi in analisi, scomponendosi al contempo in analista e paziente, contestare la sua risoluta veridicità e femminilizzarsi: «essa non è stata soltanto maschile, autoscopica costruzione di sé, ordine conoscitivo, rappresentazione formalizzante, cioè ‘ripulitura’ della realtà, ma anche oggetto del desiderio» (ibidem.).

Tuttavia è su questo punto che i risultati di Eleonora De Concilis contravvengono alle intenzioni: a fronte di un’idea brillante e di una analisi molto dettagliata della natura genealogica del pensiero (e quindi anche della stupidità e della follia), troppo poco spazio è stato dedicato al tema pur sempre centrale della filosofia come (auto)terapia dell’idiozia.

Quel che si contesta all’autrice non è tanto di non offrire soluzioni pronte, di limitarsi ad un «antidoto non garantito» – sarebbe ingiusto – quanto piuttosto di lasciare in sospeso la figura di questa filosofia femminilizzata, erotizzata, desiderante, capace di auto-analizzare le secche del sapere e della cultura postmoderna.

Inoltre, per riprendere un tema lasciato in sospeso precedentemente, non dovremmo immaginare questa filosofia erotizzata come una post-filosofia? E non dovremmo vedere nella stupidità contemporanea, nella fine della ‘fatica’ del pensare, la fine di un pensiero analogico e riflessivo? Media digitali, comunicazioni di massa e multi-tasking non sono le nuove figure di pensiero defaticato, ‘incomparabile con il lavoro’, di contro ad una riflessività che si temporalizza sempre come ‘temporeggiamento’?

Molto ingegnosa l’idea di vedere nella filosofia la comparazione speculare della stupidità e nell’indicare in questo aspetto – e non tanto nell’arte di vivere – la funzionalità critica del sapere filosofico; molto ben congeniate anche le analisi genealogiche e la critica all’ontologia. Resta, però, il quesito centrale: come immaginare una filosofia (auto)terapeutica? Secondo quali tempi, quali modalità e attraverso quali sforzi articolarla? Che sia counseling o (auto)terapia, la filosofia è o non è un ‘lavoro’?

 

De Concilis, Eleonora, Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesis edizioni, Milano 2008, pp. 172, € 15,00

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