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David Estlund, Democratic Authority

 

 

 

 

 

recensione di Guido Parietti

 

Il volume di Estlund si propone di offrire una teoria per due concetti politici fondamentali: 'legittimità' e 'autorità'. Il focus si trova, fin dal titolo, su quest’ultima, dato che la legittimità dipende dall’autorità al punto quasi da coincidervi (il che non è poi inusuale nella teoria politica). Estlund fornisce però due definizioni molto precise (p. 2) e insiste (p. 42) su una distinzione tra i due termini, che pure non troverà molto spazio nel suo successivo argomentare (riducendosi al fatto che può esservi autorità senza legittimità ma non viceversa, il che implica criteri di accettabilità più rigorosi per la legittimità che non per la sola autorità). Infatti, per autorità intende «il potere morale di un agente (soprattutto lo stato) di obbligare o vietare moralmente, attraverso comandi, azioni da parte di altri»; mentre la legittimità è «la permissibilità morale, per lo stato, di impartire e applicare i propri comandi, fondata sul processo attraverso cui questi ultimi sono stati prodotti». L’autore ragiona esplicitamente nel quadro di un fondamento morale della politica, dichiarandosi influenzato in primo luogo da Rawls. Perciò, il problema della legittimità della coercizione statale riposa su quello di fondarne in modo moralmente accettabile l’autorità. Di qui il titolo: l’autore vuole offrirci un inquadramento filosofico (senza giungere fino ai dettagli dell’applicazione politica) dell’autorità, da un punto di vista democratico.

Questo fondamento potrebbe essere, normativamente, inteso in due modi: procedurale o contenutistico. Contenutistico equivale a dire, per Estlund, epistemico, perché anche la prospettiva morale è intesa in senso cognitivo (sia pur minimale, p. 25). La questione è presentata, cioè, come se si trattasse di decidere se l’autorità della democrazia possa essere giustificata in forza del valore intrinseco alle sue procedure (autonomia, uguaglianza, libertà) oppure grazie ai buoni risultati che riesce a ottenere dal punto di vista moral-epistemico. Entrambi i modi, se intesi come puri, falliscono. Il proceduralismo (che nell’interpretazione di Estlund sarebbe prevalente) cadrebbe sul fatto di non poter dare buone ragioni della differenza tra una decisione democratica e una scelta casuale (ad esempio il lancio di una moneta), giacché entrambe rispetterebbero il requisito di una giustizia procedurale pura. In effetti, secondo Estlund (che però omette di considerare il principio di autonomia) chi come Habermas o Waldron sostiene giustificazioni procedurali della democrazia non può fare a meno di includervi alcuni riferimenti contenutistici a criteri etico-cognitivi. Viceversa, concepire l’autorità democratica solo in base alla correttezza delle decisioni effettive, definirebbe un’idealizzazione “troppo” epistemica per essere applicabile; poiché, anche supponendo che vi siano in ciascuna occasione delle decisioni cognitivamente corrette, c’è un ragionevole disaccordo (Estlund traduce la nozione rawlsiana di ragionevolezza in quella di “punti di vista qualificati”, ma non ritiene di dover specificare quale sia il criterio di accettabilità) sia su quali esse siano, sia su chi sarebbero eventualmente gli “esperti” adeguati per ciascuna istanza decisionale. D’altronde, è necessario che l’autorità sia rispettata anche quando sbaglia (sebbene con un limite, non specificato, al livello di ingiustizia sopportabile in ciascun caso), il che non si darebbe se l’autorità fosse fondata interamente sulla correttezza di ciascuna decisione. In altre parole, far coincidere l’autorità con la correttezza epistemica – ma lo stesso varrebbe per qualsivoglia criterio esterno – dissolverebbe il concetto stesso di autorità.

Dato che i “tipi puri” di giustificazione non sono sostenibili, Estlund propone una mediazione nella forma del suo ‘proceduralismo epistemico’. L’analogia proposta dall’autore è con il sistema delle giurie nei processi: non c’è in alcun singolo caso la garanzia che la decisione sarà corretta, nondimeno l’autorità del sistema si basa sul fatto che esso, nel complesso, sia relativamente efficiente nel produrre risultati corretti. Così, la democrazia può giustificare la propria autorità se le sue procedure tendono a produrre risultati cognitivamente migliori di tutte le alternative che sarebbero accettabili da posizioni qualificate, nonostante ciò non valga per ogni singola istanza ma solo come tendenza di insieme. Estlund deve quindi proseguire nell’argomentare, da un lato, come la democrazia sia complessivamente affidabile nel proporre soluzioni significativamente migliori di quelle che si otterrebbero casualmente (il che, come si è detto, sarebbe pur sempre un esempio di giustizia procedurale pura) e, dall’altro, come le alternative che potrebbero dare risultati cognitivamente migliori siano da escludere perché non accettabili da tutti i punti di vista qualificati.

Nell’esplicitare la propria concezione del contributo della democrazia alla qualità cognitiva dei risultati Estlund compie anche una meritoria opera di confutazione degli approcci tecnico-matematici allo studio dei comportamenti elettorali (cap. XII) e dell’analogia con il contrattualismo (cap. XIII). Non si tratta, perlopiù, di argomentazioni nuove, ma è davvero encomiabile il modo piano e comprensibile con cui Estlund, peraltro senza alcuna acrimonia, spiega l’irrilevanza, per il giudizio sulla democrazia, della linea di pensiero che va dal famoso “teorema della giuria” di Condorcet fino al teorema di impossibilità di Arrow e all’applicazione della rational choice theory alla teoria politica. Nell’affermare come da questo tipo di ricerche non ci si possa attendere alcuna “dimostrazione” del valore epistemico della democrazia, Estlund è molto convincente. Tuttavia, la parte costruttiva dell’argomentazione (capp. VII-X) è, ancorché più voluminosa, meno sviluppata. Ciò non è casuale, rispondendo bensì alla strategia per cui l’autore vuole affermare il valore epistemico della democrazia prescindendo il più possibile dal suo effettivo contenuto, perché naturalmente si tratta di essere inclusivi verso tutte le posizioni qualificate, senza presumere anticipatamente la correttezza di alcune decisioni a scapito di altre. Perciò, Estlund offre due argomenti alquanto minimali: da un lato, la democrazia sarebbe migliore delle alternative non già nel perseguire i beni primari di rawlsiana memoria, ma nell’evitare i mali peggiori (guerre, carestie ecc.) riconosciuti come tali da tutti i punti di vista qualificati; d’altro canto questa capacità poggerebbe interamente sul debole valore cognitivo che non si potrebbe negare inerisca allo scambio di ragioni e informazioni tra i partecipanti al dibattito democratico. L’autore non esclude la validità di giustificazioni più onerose, giudica però necessari e sufficienti gli elementi da lui difesi, tenta cioè di soddisfare l’argomentazione sostenendo il minor onere della prova possibile. Però, pur sempre di un onere empirico si tratta, e se è difficile negare (per dire il vero Estlund si preoccupa poco di fornire dati di qualsiasi tipo) che le democrazie siano storicamente riuscite meglio di altri sistemi nel limitare guerre e pestilenze, molto più dubbio – o perlomeno dubitato da un’ampia letteratura – è che esista un valore cognitivo della discussione pubblica e che questo sia responsabile degli stessi risultati, relativamente buoni, raggiunti dalle democrazie.

Si deve ricordare, tuttavia, che la posizione di Estlund è costruita in modo tale da non dover rispondere contro l’eventuale valore epistemico di tutte le possibili alternative alla democrazia, ma solo contro quelle accettabili da tutti i punti di vista qualificati. Varie possibilità, come si è detto, sono escluse per la loro manifesta impraticabilità cognitiva, ma almeno un modello viene considerato da Estlund (cap. XI) un candidato abbastanza credibile da dovere essere affrontato più nel dettaglio. Si tratta della cosiddetta “epistocrazia degli educati”, traduzione contemporanea della proposta di J.S. Mill di fornire un numero maggiore di voti ai cittadini con un più alto grado di istruzione. Questo esempio differisce dall’affidare il governo a degli “esperti”, perché non avanza l’irrealistica pretesa di individuare in modo non controverso chi siano costoro, ma soltanto quella più semplice di indicare un ampio gruppo la cui competenza media sarà quasi certamente maggiore di quella della popolazione nel suo complesso. Dunque, se il punto di arrivo dev’essere l’affidabilità epistemica delle procedure democratiche, perché non conferire maggior peso al voto di alcuni cittadini, che nell’insieme saranno certamente più capaci della media? La risposta di Estlund è che l’epistocrazia non sarebbe conforme al criterio dell’accettabilità. Infatti, il gruppo dei “più educati” può essere facilmente poco rappresentativo dell’insieme della popolazione e inoltre, cosa decisiva, tale deviazione può configurarsi secondo modalità che sarebbe impossibile e/o indesiderabile correggere. Data la possibile presenza di bias incorreggibili, affidare un maggior potere decisionale a un settore della popolazione non sarebbe mai accettabile da tutti i punti di vista qualificati, neanche nell’eventualità in cui tale gruppo fosse incontestabilmente dotato di maggiori capacità politiche. Sfortunatamente, la plausibilità di questo argomento è indebolita dal rifiuto di specificare qualsiasi criterio per la qualificazione dei punti di vista – il che però porrebbe questioni di ben altro momento.

Il libro si chiude con un capitolo che, presentato come una critica della diffusa fobia per le utopie politiche, discute brevemente l’appropriato ruolo del teorico che dovrebbe evitare gli opposti pericoli dell’irrealistico distacco dal mondo politico così com’è e l’appiattimento su di esso con la conseguente perdita dello spazio per la critica.

Per concludere, il libro di Estlund potrebbe utilmente essere letto nel quadro della diffusa tendenza a sostituire, in politica, il valore della volontà individuale con quello della conoscenza; vale a dire di derivare una giustificazione per un quadro normativo molto simile a quello classico del liberalismo politico, variandone però radicalmente il fondamento, dalla libertà intesa come autonomia della volontà, alla razionalità sostanziale come produttrice della migliore soluzione dei problemi di giustizia. All’interno di questo orizzonte, il tentativo di Estlund, pur presentando alcuni problemi irrisolti, è senz'altro tra i più avanzati. Un giudizio complessivo sulla validità dell’intera impresa non può però trovare spazio in una breve recensione.

 

Estlund, David, Democratic Authority: A Philosophical Framework, Princeton University Press, Princeton NJ 2008, pp. 324, $ 29,95

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