Sebbene costituisca uno dei nodi più interessanti dell’intero panorama di studi sull’evoluzione, è assai difficile, se non impossibile, imbattersi in studi interamente dedicati alla questione dell’altruismo. La pubblicazione di Egoisti, malvagi e generosi può dunque essere salutata come un utile e importante evento editoriale, che colma, almeno in Italia, una lacuna rilevante. Infatti, se da un lato non mancano certo pubblicazioni concernenti l’evoluzione della moralità, dall’altro occorre notare come l’altruismo ponga un problema ben più specifico, che il volume di Coco ha il merito di mettere immediatamente in chiaro, evidenziandone il carattere paradossale: «se i generosi tendono a riprodursi meno (o per nulla), mentre gli “egoisti” si riproducono anche più del normale (grazie all’aiuto ricevuto), i primi non dovrebbero scomparire nel giro di qualche generazione?» (p. IX); «Com’è possibile che gli altruisti […] non si siano ancora estinti?» (p. 7). Non sembra esserci alcun motivo per cui la selezione naturale, nella sua incessante opera di scrutinio, debba promuovere il comportamento altruistico all’interno del regno animale. Naturalmente, con il termine ‘altruismo’ non si intende certo una effettiva motivazione altruistica sottesa a determinati comportamenti da parte degli animali; in maniera assai più blanda, ma non per questo meno significativa, si fa riferimento all’aspetto meramente ‘esteriore’ di quei comportamenti, ossia al fatto empiricamente osservabile che alcuni individui tendono a sacrificarsi a vantaggio di altri.
Com’è noto, la risposta a tale questione giunse dal biologo britannico con il vezzo della matematica William D. Hamilton, che verso la metà degli anni Sessanta diede alle stampe un fondamentale articolo dal titolo The Genetical Evolution of Social Behaviour, destinato ad avere una influenza a dir poco smisurata negli anni a venire. Hamilton è dunque il grande protagonista del libro di Coco, sebbene scorrendo l’indice possa venire il sospetto che il reale protagonista sia un altro William, suo ben più famoso connazionale, di nome Shakespeare. Va notato in primis che in questo lavoro Coco ha potuto far largo uso delle «lezioni inedite di Hamilton da me ritrovate alla British Library» (pp. IX-X) di Londra, tutt’ora conservate presso l’Archivio Hamilton del Department of manuscripts della medesima, che Hamilton tenne tra il 1965 e il 1978 a Londra, San Paolo del Brasile e Harvard. In secondo luogo, una significativa scelta operata da Coco è quella di intrecciare la vicenda prettamente scientifica con quella biografica non solo di Hamilton, ma anche di tutti quegli studiosi – quali Haldane, Wynne-Edwards, Maynard-Smith, Price, ecc. – i quali, vuoi per influenza indiretta, vuoi per conoscenza diretta, ne condizionarono in qualche modo il pensiero. Cosa più importante, questa scelta risponde alla profonda e condivisibile convinzione che non sia possibile comprendere la storia della scienza senza fare riferimento all’«intreccio che [essa] mantiene con la vita stessa delle persone, con le loro speranze, i sogni, le opportunità accidentali» (p. 67). Ecco dunque spiegate le interessanti e numerose pagine spese nel resoconto della vita di Hamilton, delle sue difficoltà a trovare prima una cattedra, poi una rivista interessata al suo articolo, dell’intervento di Maynard-Smith in suo favore, della amicizia e collaborazione con Price all’inizio degli anni Settanta e così via.
Quale fu, allora, la soluzione di Hamilton al paradosso dell’altruismo? Già Haldane in The Causes of Evolution (1932) aveva proposto un modello relativo all’evoluzione di un allele svantaggioso per l’individuo ma vantaggioso per la collettività – quale ad esempio l’ipotetico allele dell’altruismo –, concludendo che difficilmente esso potrebbe diffondersi tra la popolazione a meno che questa non sia abbastanza piccola da far sì che tutti i suoi componenti fossero in qualche modo imparentati; in questo caso, infatti, un sacrificio altruistico a beneficio di un altro comporterebbe in ogni caso la promozione dei propri geni e potrebbe dunque essere promosso dalla selezione naturale. Con Haldane si stabiliva dunque un punto importante: la stretta connessione fra diffusione dell’altruismo e legami di parentela. Hamilton si dimostrerà in ciò un “seguace” di Haldane, differendo tuttavia per un aspetto fondamentale: il rifiuto di qualsiasi possibile spiegazione dell’altruismo in termini di vantaggio della collettività, la conseguente adozione del punto di vista della genetica di popolazione e dunque la ricerca di un modello matematico incentrato esclusivamente sulla fitness individuale. Sarà il concetto di inclusive fitness ad aprirgli le porte alla soluzione del problema. Tale nozione, spiega Coco, non esprime la fitness totale dell’individuo, bensì l’effetto totale che uno specifico allele oggetto di studio avrà (1) su alleli identici, che si trovano nei parenti, e (2) su alleli differenti, che si trovano nei soggetti estranei. In altre parole, essa stima «quanto il gesto altruista rimarrà […] in casa o verrà disperso a vantaggio di sconosciuti» (p. 59). Una volta in possesso di questo strumento, è sufficiente metterne a confronto il valore con la fitness del portatore di quell’allele; si avranno, così, quattro possibili risultati: (a) aumenta sia la fitness del soggetto che la somma degli effetti sui vicini, cioè la inclusive fitness (mutualismo), (b) aumenta solo la prima (egoismo), (c) aumenta solo la seconda (altruismo), (d) diminuiscono entrambe. Ora, in quali condizioni ciascuna di queste situazioni potrà essere promossa dalla selezione naturale? Nel primo caso, spiega Coco, ciò non richiede condizioni particolari e la promozione del mutualismo può avvenire anche in relazione ai non parenti. L’ultima situazione, svantaggiosa per tutti, tenderà in quanto tale a essere eliminata dalla selezione naturale. L’egoismo potrà verificarsi solo nei casi in cui il vantaggio personale sia maggiore dei danni inflitti ai parenti, ma si tratta tuttavia di evoluzioni non probabili laddove i danni ai parenti siano particolarmente cospicui. Infine, l’altruismo sarà promosso laddove i vantaggi offerti ai parenti siano tali da giustificare una personale perdita di fitness. In altre parole, soltanto laddove i parenti beneficino di un vantaggio che è superiore al danno personale, il sacrificio altruistico potrà essere promosso dalla selezione. È questa dunque l’unica forma di altruismo che la selezione può aver promosso – una specifica forma di selezione che va sotto il nome di kin selection: «mi comporto altruisticamente con i parenti, perché essi sono portatori dei miei geni» (p. 63). Questa conclusione, pur confortante sul piano scientifico, risulterebbe tuttavia alquanto mortificante dal punto di vista morale. Il modello di Hamilton consente infatti di salvaguardare la teoria darwiniana, scongiurandone l’incompatibilità con il comportamento altruistico, ma al prezzo che tale altruismo risulti «solo un inconsapevole calcolo di interessi» (ibid.) e la natura un regno alquanto inospitale nei confronti di una più genuina moralità.
Vi sono forse rassicurazioni maggiori nel modello della selezione di gruppo di Vero C. Wynne-Edwards? Com’è noto, la group selection costituì la grande alternativa ai modelli centrati sulla selezione individuale o genica nel corso degli anni Sessanta e Settanta, prima di cadere in disgrazia sotto i colpi dei vari Maynard-Smith e Dawkins. L’idea fondamentale è che un gene vantaggioso per la collettività possa essere promosso anche se svantaggioso per l’individuo. Nella fattispecie, anche se gli altruisti tendono a scomparire, ciò sarebbe compensato dalla crescita espansiva che coinvolgerebbe il gruppo. Vi sarebbe in altre parole un livello superiore (gerarchicamente parlando) di selezione, rispetto a quello individuale, che possa dar conto del fenomeno dell’altruismo scongiurando al contempo l’esito tornacontista implicato dal modello di Hamilton. Tuttavia, anche tralasciando i problemi e le possibili obiezioni legate al modello di Wynne-Edwards, sul piano morale, ad avviso di Coco, esso non appare molto più confortante della kin selection hamiltoniana. Infatti, anche ammesso che i buoni proliferino, questo non significa che lo facciano in virtù del loro altruismo, ma solo in virtù della maggiore ‘efficienza’ che l’altruismo garantisce al loro gruppo rispetto a quelli che annoverano un maggior numero di egoisti. Se dunque l’esito del modello hamiltoniano era tornacontista, quel del modello di Wynne-Edwards si rivela xenofobo: esso tende, è vero, a una società basata sul bene della collettività, ma «per farlo essa esclude coloro che non sottostanno alle regole ed è aggressiva nei confronti di tutte le società in cui vigano regole diverse» (p. 88).
Ora, questa storia naturale dell’altruismo ha il suo unico momento di riscatto grazie all’opera scientifica di Robert Trivers, cui Coco dedica un capitolo, che individuerà nel 1971 le condizioni per l’evoluzione dell’altruismo reciproco: «una forma di solidarietà che si mantiene stabile nel saldo del conteggio dei pro e contro per via del fatto che, prima o poi, il donatore riceve in cambio il servizio offerto» (p. 166). La deriva egoistica è anche in questo caso dietro l’angolo: se un organismo decide di ingannare quello da cui ha ricevuto il servizio, ne ottiene subito un netto vantaggio; col passare del tempo, dovremmo quindi aspettarci che la disponibilità all’altruismo reciproco tenda a diminuire, a causa del rischio di essere “raggirati” dai soggetti malintenzionati. Perché ciò non avvenga è dunque necessario che all’interno del gruppo gli ‘incontri’ siano sufficientemente frequenti, di modo che i trasgressori possano essere facilmente individuati; in tal modo, a nessuno converrà perpetrare il raggiro, perché in tal caso un soggetto verrebbe immediatamente punito con l’immediata estromissione dal sistema vigente di scambi.
A dispetto del contributo di Trivers, tuttavia, Coco si dimostra alquanto scettico sulla possibilità che un simile quadro possa fornire rassicurazioni sufficienti circa la moralità umana. Un difetto che Coco intravede in molta parte degli studi concernenti la selezione naturale, è quello di considerare quest’ultima come una sorta di legge universale che, alla stregua della gravitazione universale nel mondo fisico, governerebbe ineludibilmente il mondo biologico. Questo atteggiamento, da sempre figlio del tentativo di approssimare quanto più possibile le scienze biologiche ed evoluzionistiche alle scienze dure, rivela tuttavia la sua inadeguatezza nel momento in cui la realtà biologica si dimostra troppo sfaccettata e multiforme per essere “catturata” da leggi rigide e universali. Nella fattispecie, parlare di ‘selezione naturale’ in generale non tiene conto del fatto che ciascuna specie “sente” in modo diverso le pressioni selettive; «Più gli animali sono evoluti, più sono in grado di reagire agli effettivi selettivi» (p. 174). La selezione naturale non può essere compresa e studiata esclusivamente in termini di selezione dei geni, perché essa si dà anche (e forse soprattutto) in una dimensione ‘ecologica’ che è il frutto del modo in cui gli organismi intervengono sui rispettivi ambienti, e non può sussistere indipendentemente da questo incontro: «nell’iter evoluzionistico gli organismi derivano gli uni dagli altri ma il loro progressivo complicarsi li rende diversi agli occhi della selezione naturale» (ibid.). Un modello come quello di Hamilton, o anche di Trivers, mentre possono ben applicarsi alla socialità animale, non è affatto scontato che possano dirci qualcosa di importante su Homo sapiens. Coco si dimostra piuttosto ostile verso i tentativi di assimilazione dell’evoluzione culturale a quella biologica, e ritiene che i tempi siano maturi per tornare a pensare la differenza tra esseri umani e animali non umani in termini di cesura, salto (purché non ontologico) e iato, pur rimanendo all’interno di un’ottica evoluzionistica e darwiniana. A tale scopo, il “gioco” dell’autore è quello di «[immaginare] gli eroi drammatici di Shakespeare mossi da aspetti tipici del discorso evoluzionistico» (p. 4), per poi tuttavia giungere alla conclusione di una «netta separazione fra il teatro e la natura, fra la storia umana e le leggi biologiche che potrebbero determinarla» (ibid.). Attraverso il Bardo, Coco tenta cioè di riguadagnare l’unicità dell’agire umano, giungendo persino a parlare di «tradimento di quelle leggi naturali che la biologia di metà Novecento ci ha rivelato» (p. 42).
Tuttavia ci si può domandare se sia davvero necessario postulare questo allontanamento dalla natura al fine di salvare l’azione umana. La tirannia della natura può costituire un problema solo nel momento in cui questa è concepita in termini di leggi fisse e inalterabili, strettamente deterministiche. Ma questo è proprio ciò che Coco nega. Nel momento in cui si difende la plurivocità della natura, in particolare del mondo biologico, nel momento in cui dunque si rifiuta l’idea della selezione naturale come indipendente dall’interazione organismo-ambiente, non v’è più alcun bisogno di considerare i rapporti tra l’essere umano e la natura in termini di salto o iato. Se si sostiene che ogni specie orienta la selezione in modo peculiare, in funzione della ‘propria’ natura, non c’è motivo per cui si debba difendere la specificità di Homo sapiens escludendolo da quest’ultima. Dopotutto, come ha detto qualcuno, ‘natura’ e ‘cultura’ potrebbero non essere delle alternative. Quanto a Hamilton, la grande importanza del suo contributo risiede semplicemente nell’aver mostrato la non-incompatibilità, a certe condizioni, della teoria darwiniana con la diffusione dell’altruismo. Non è tuttavia necessario ricercare in ciò delle dirette implicazioni per la vita morale umana.
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