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Giovanni Casertano, Paradigmi della verità in Platone

 

 

 

recensione di Aurora Corti

 

Il volume di Giovanni Casertano Paradigmi della verità in Platone è un lavoro sorprendente, nel senso letterale della parola, ossia è un volume che sorprende il lettore, che, se prima si aspettava di trovarsi di fronte ad un classico studio di storia della filosofia, poi si riscopre invece immerso in un’opera di filosofia morale. L’intento dell’A. è, infatti, quello di svelare il significato del concetto di verità in Platone e, sebbene tale intento sia perseguito attraverso un’analisi dettagliata di quasi tutte le opere del corpus platonico (dall’Apologia all’Ippia Minore, dal Fedone al Gorgia, dal Cratilo al Protagora, dai dialoghi dialettici al Timeo, per citarne solo alcune), la conclusione alla quale perviene e la modalità argomentativa attraverso cui vi perviene sono entrambe profondamente debitrici della riflessione etica che Casertano sviluppa a partire dai testi di Platone. La tesi di fondo del libro – ossia l’assunto secondo cui la verità sia una questione di etica, una scelta di vita, un riorientamento delle proprie credenze e dei propri desideri – risulta così essere, al tempo stesso, un’interpretazione della filosofia platonica e l’espressione del nucleo centrale della filosofia di Casertano stesso.

Il volume prende avvio dalla constatazione – tanto valida dal punto di vista dell’analisi puntuale dei testi, quanto troppo spesso, stranamente, ignorata dagli studiosi di Platone – che negli scritti platonici non si dà mai una definizione di verità: «se una delle caratteristiche della filosofia platonica, nel suo riallacciarsi […] a quella socratica, è appunto quella di cercare e di individuare il “che cos’è” di ogni cosa e di ogni idea, potrebbe sembrare strano non imbattersi mai in una definizione della verità» (pp. 10-1). Se ci atteniamo ai testi platonici, dunque, in essi è assente una dottrina sistematica della verità, né tanto meno in essi si fa ricorso, alla maniera dei Presocratici, allo svelamento di una Verità. Platone, perlopiù, tematizza i diversi modi in cui si può parlare di verità, i diversi ambiti all’interno dei quali tale concetto assume un proprio significato: per dirla con Foucault, in Platone sussistono diversi regimi di verità, per dirla con Casertano diversi paradigmi, dove già nel titolo è significativo tanto l’uso del plurale quanto il ricorso a un termine che rimanda subito a uno statuto epistemologico debole.

Questa osservazione, del resto fondante l’intero libro, porta l’A. a prendere in esame i diversi paradigmi della verità e la prima conclusione alla quale perviene Casertano, anch’essa sorprendente e perciò perfettamente in linea con l’intero volume, è che, se si vuole comprendere a fondo il concetto platonico di verità, bisogna necessariamente ridurre quella distanza tra aletheia e doxa, da molti studiosi e da molto tempo considerata abissale, ma che abissale poi non è. Verità e opinione vera, secondo l’A., non hanno statuti ontologici differenti, né raggiungono livelli, diversi qualitativamente, di validità conoscitiva. Per dimostrare ciò Casertano si rifà a un famoso e discusso passo del Menone (97 b-98 a), in cui Platone scrive che l’episteme si differenzia dalla doxa alethes non perché si riferisce a contenuti differenti e assenti nell’opinione, ma perché solo la scienza è in grado di fornire un nesso causale tra tali contenuti, un aitias logismos. La differenza tra verità e opinione vera, dunque, non è di natura epistemologica, ma metodologica: «verità e opinione vera sono il risultato dell’applicazione del metodo vero al mondo razionale o a quello del sensibile. Il discorso che ne deriva sarà vero […] se parliamo del mondo razionale, del mondo delle idee; sarà invece verosimile, opinione vera, se parliamo del mondo sensibile, cioè del mondo concreto nel quale ci muoviamo con i nostri pensieri e le nostre azioni. L’opinione vera è dunque il solo discorso che umanamente possiamo fare sul nostro mondo e su di noi» (pp. 254-5). La doxa alethes riveste, quindi, un’importanza fondamentale e strategica nella costruzione di quell’unico discorso veritiero  accessibile all’uomo e nella costruzione, dunque, anche dell’etica, dato che, come abbiamo detto all’inizio, la verità è una questione di etica, di scelte di vita e «l’opinione vera, in rapporto alla correttezza dell’azione, non è affatto una guida peggiore dell’intelligenza» (Men. 97 b 10).

Questa rivalutazione della sfera doxastica si ricollega, più in generale, all’interpretazione complessiva che Casertano sostiene della filosofia platonica e che, seppur non dichiarata esplicitamente, spesso e volentieri si riesce a cogliere tra le righe (basti pensare a frasi come «la filosofia platonica, nella sua struttura più profonda, è domanda: le conclusioni dobbiamo trarle noi», p. 35 o anche essa «non [è] contenuti e dottrine fissi ed eterni, ma solo il saldo possesso di un metodo vero, quello delle idee, e la faticosa costruzione di opinioni vere», p. 256). Secondo tale lettura – che potremmo definire “aporetica”, sebbene sarebbe un errore assimilare la posizione di Casertano con coloro che fanno di Platone uno scettico – non esistono dei dogmi assolutamente validi, ma solo delle homologhie relative e provvisorie alle quali si perviene attraverso un processo infinito di ricerca. All’interno di questa lettura, dunque, anche la verità non possiede più la certezza assoluta e immobile, ma rappresenta solo un orizzonte, un “luogo atopico” capace di orientare la nostra vita, dove ancora una volta il primato è dato alla dimensione etica. Perciò secondo Casertano la verità in Platone non si esaurisce, e forse nemmeno trova sussistenza, in un insieme di dottrine, bensì si mostra in un atteggiamento, in una disposizione dell’animo che è esattamente quella della ricerca. La verità, dunque, come «“senso” della ricerca, ancor prima che il suo risultato. Perché l’uomo cerca, deve cercare, sempre la verità, e principalmente perché la verità è indispensabile alla condotta giusta della sua vita, ma deve anche essere pronto a rimettere sempre in discussione i risultati delle sue ricerche» (p. 171).

Secondo Casertano, perciò, la verità per Platone si può cogliere solo in parte e, questione fondamentale, solo e unicamente all’interno del contesto dialogico. Più volte egli ripete, infatti, che la verità è tale solo, e si può ritrovare solo, all’interno dell’ambito dei discorsi. La verità ha sempre bisogno, infatti, di essere testimoniata in un dialeghestai costante; deve sempre essere messa in discussione, alla prova delle opinioni altrui e, alla fine, essere o accettata o confutata. In altre parole, la verità è assolutamente al di fuori di una posizione individualistica, ma si dà solo nel rapporto dialettico con l’altro.

Questo aspetto, però, solleva una questione problematica, di cui Casertano discute in particolar modo nella sua approfondita analisi del Gorgia. Se, infatti, la verità risiede esclusivamente nello scambio reciproco di opinioni, ottenuto mediante dialogo, questa verità non deve solo essere dichiarata, ma deve anche persuadere. «Bisogna, cioè, convincere almeno colui con il quale si sta discutendo, altrimenti la verità di cui [ci si fa] portatori non ha praticamente alcun valore, non è “degna”, nel senso che non ha alcuna efficacia pratica e positiva nella vita della comunità» (p. 87). La dimensione retorico-persuasiva ha, dunque, un ruolo fondamentale perché la verità venga presa davvero sul serio e messa in pratica. Non basta possedere una verità, bisogna anche persuadere l’altro, magari attraverso l’uso di una buona retorica, che quella è la verità.

Il lavoro di Casertano, dunque, sulla scia di altri studi platonici, tenta di rivalutare la dimensione retorico-persusiva: secondo l’A. ciò che Platone non accetta non è tanto l’utilizzo di uno stile retorico, quanto la visione generale che spesso – come nel caso dei Sofisti – sottostà a tale utilizzo, ossia quella secondo la quale la retorica sarebbe un’arte neutra, che può sostenere indifferentemente il vero e il falso. Per Platone, ricorda giustamente Casertano, questo è impossibile, perché chi non conosce il vero non può neanche essere un buon retore.

In conclusione, dunque, il volume di Casertano è assolutamente interessante e, seppur contenutisticamente denso e storicamente accurato, risulta essere una piacevole lettura che non scade mai nella pedante erudizione. Credo, inoltre, che la tesi di fondo del volume, ossia che la verità per Platone riguarda il mondo concreto e le nostre prospettive etiche, sia assolutamente condivisibile. Al tempo stesso, però, mi permetterei di avanzare una critica. A mio avviso, infatti, nella filosofia platonica esistono anche tracce di una verità “ontologica”, ossia esistono entità, le Idee, che hanno la caratteristica precipua di essere vere. Se per Platone la verità fosse solo quella homologhia parziale del dialeghestai, egli non si discosterebbe molto dalla filosofia socratica; ma noi sappiamo bene che per Platone il metodo del maestro ha, almeno in parte, fallito e che intere sue opere, come la Repubblica, ma forse anche l’intero suo percorso filosofico, sono stati in fin dei conti un tentativo di andare oltre Socrate e di ancorare la verità dialogica a qualcosa di “ontologicamente” più stabile. Se poi la conoscenza di questo mondo stabile sia accessibile all’uomo e se, in caso di risposta negativa, egli si debba, perciò, accontentare non della verità, ma di opinione vere, è un’altra questione.

 

Casertano, Giovanni, Paradigmi della verità in Platone, Editori Riuniti, Roma, 2007, pp. 282, € 17,50

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