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Liora Israël, L'arme du droit

 

 

 

 

recensione di Michele Spanò

 

Una fondamentale ambiguità inerisce a ogni arma: essa è virtualmente, e allo stesso tempo, difensiva e offensiva. Un’ambivalenza che solo l’uso può incaricarsi di sciogliere. E un uso che decida per uno dei due corni dell’alternativa è per sua natura politico. È questo, depurato della metafisica che vi abbiamo surrettiziamente introdotto, il fuoco attorno a cui ruota il recente libro di Liora Israël: la forza politica del diritto risiede nel suo possibile rovesciamento. Se il diritto è infatti, almeno a tutta prima, una forza che delimita e inquadra le forme della contestazione, trasformarlo in strumento di mobilitazione sociale obbliga a sfruttarne l’essenziale reversibilità. Si tratta, insomma, di un vero e proprio paradosso: l’uso contestatario del diritto implica, allo stesso tempo, sfiducia e riconoscimento dell’autorità da cui esso promana. Integrare, come Liora Israël prova a fare, il ricorso al diritto nel repertorio di forme della mobilitazione quale suo speciale registro, comporta perciò un confronto con quell’aporia costitutiva che unisce attraverso un curioso double bind la forza del diritto e la sua contestuale permeabilità a quegli usi contestatari che lo trasformano in uno strumento d’azione.

L’autrice, sociologa del diritto all’EHESS di Parigi, incorolla attorno al fondamentale carattere di pharmakon proprio del diritto trasformato in strumento di contestazione, due assi complementari di riflessione: da un lato, quello della sociologia delle professioni, attenta al ruolo e alla funzione dei professionisti del diritto e al fenomeno del cause lawyering, e, dall’altro, quello – oggi assai in voga – dello studio del diritto come modo di conciliazione, capace di annodare elaborazione della memoria collettiva, pacificazione dei conflitti e punizione dei crimini.

L’ambivalenza del diritto come motore del cambiamento sociale è una questione storicamente controversa. La constatazione che il sistema giudiziario sia di rado politicamente neutro e pressoché mai socialmente equo ha spesso condotto a ritenere illusoria la possibilità di brandirlo come un’arma. Il marxismo – inteso qui in senso assai lato – ha perlopiù riconosciuto nel diritto la formalizzazione, operata dalla classe dominante e in forza di categorie presunte universali, delle contraddizioni e dei conflitti materiali che agitano la società. Ma anche un sociologo del diritto come Marc Galanter ha mostrato in un celeberrimo saggio i motivi strutturali che conducono la giustizia a privilegiare e beneficiare più quei repeat players, adusi alla frequentazione della macchina giudiziaria, che non gli one shotters. Categorie, queste ultime, che, fuori dalle aule di tribunale, si adattano anch’esse comodamente a una coriacea divisione di classe: ben equipaggiati – economicamente e cognitivamente – i primi, sprovvisti dei due tipi di risorse i secondi.

Muovendo da questi studi fu facile per i Critical Legal Studies statunitensi convergere sull’ipotesi che la battaglia attraverso il diritto fosse poco più che un’illusione, e che le eventuali vittorie ottenute, si sarebbero rivelate, in ultima istanza, controproducenti. Tuttavia, come mostra Liora Israël, si tratta di una conclusione che discende da un’immagine del diritto e del potere eccessivamente stilizzata, quando non monodimensionale, incapace, tra l’altro, di leggere tutta la serie di “spostamenti simbolici” operati proprio in virtù del diritto. Sarà un altro teorico del diritto statunitense, Michael McCann, a preoccuparsi di ricollocare il diritto al cuore dei rapporti di forza e di mostrarne perciò la natura di risorsa politica e di forma di mobilitazione disponibile per i movimenti sociali.

Il diritto, insomma, può essere opposto al potere. Dunque, in prima istanza, allo Stato che ne è la principale fonte. È cosi che Israël, ripercorrendo l’opera di Richard Abel – pioniere degli studi di Law and Society –, può tornare sull’idea che la contestazione attraverso il diritto non possa fare a meno di un suo “rovesciamento”, per cui quegli strumenti che costituiscono la grammatica ordinante del diritto positivo si rivelano disponibili sempre e anche come risorse. Se per Abel il tribunale può rivelarsi niente meno che una piattaforma di espressione, l’uso che del diritto tende a privilegiare è tuttavia quello difensivo, come bene lascia intendere la nota metafora del diritto come scudo. Se infatti usare il diritto come spada costringerebbe a dare ragione, esprimersi, produrre un cambiamento sostantivo, portare a visibilità ciò che non appariva neppure come un problema, lo scudo allude piuttosto a un uso circostanziato, periferico e perlopiù procedurale.

Sembra invece possibile sostenere, sfruttando anche la cornice teorica allestita da Israël, che la distinzione eccessivamente rigida tra scudo e spada sia piuttosto funzione della contingenza e dei contesti storici e sociali, che non una caratteristica essenziale del diritto, giacché, come si è visto, è proprio la virtualità ambigua del diritto, attualizzata in un senso o nell’altro solo dall’uso, a renderlo un’arma possibile della contestazione. Basterà infatti spostarsi nella Francia degli anni ’70 e ’80 per imbattersi in un assai più vivace interesse per il ruolo offensivo del diritto, incorniciato, ancora una volta, da quella fondamentale ambivalenza che presiede al rapporto tra movimenti e diritto, per cui la sfiducia verso il diritto e la domanda di diritto si richiamano sempre vicendevolmente.

È soltanto una teoria maggiormente comprensiva a permettere di vedere, ed eventualmente sfruttare, l’intero fascio di prestazioni politiche del diritto. Ed è un particolare tutt’altro che secondario che Israël, autrice francese, si rivolga, per schizzare i lineamenti di questa teoria, soprattutto alla produzione teorica statunitense, con una competenza e un’intelligenza critica che fanno giustizia di uno stereotipo culturale che vorrebbe i ricercatori francesi impermeabili, quando non proprio allergici, ai prodotti teorici non autoctoni. Il riferimento privilegiato da Israël è la Legal Mobilization Theory. Costellazione teorica assai eterogenea, facendo del diritto un sistema di valori culturali e simbolici, essa permette di identificare quei momenti e quei passaggi in cui il diritto può giocare un ruolo significativo per un movimento sociale: dalla concezione dell’agenda, alla catalizzazione e poi alla rivelazione di una nuova forma di mobilitazione. È la stessa messa in forma giuridica, insomma, che può risultare decisiva a produrre effetti trasformativi sulla realtà, anche indipendentemente dal risultato del processo. A questa linea teorica, tuttavia, Israël muove due fondamentali critiche: essa sarebbe, da un lato, poco attenta a un serio lavoro di comparazione, e, dall’altro, priva di una robusta sociologia delle professioni e delle istituzioni.

Il progetto di Israël prevede perciò di combinare la sociologia del diritto con la sociologia dell’azione collettiva. Il primo passo in questa direzione è costituito dallo studio del ruolo degli avvocati. Da Tocqueville, primo a sottolineare il ruolo politico-costituzionale dei professionisti del diritto all’interno del gioco democratico, a Voltaire che, con la vicenda di Calas, “inventa” l’affaire. Israël si impegna quindi in una discussione – che è poi una circostanziata critica alle tesi esposte dal sociologo Lucien Karpik in un recente volume consacrato alla storia dell’avvocatura francese – intorno a un presunto e privilegiato rapporto tra la professione di avvocato e la scelta politica per il liberalismo. Attraverso una rapida cavalcata storica che va, appunto, dall’idea del processo come “intervento pubblico”, come nell’affaire e nell’uso comunista della giustizia, il cui storico incunabolo è da riconoscere nel processo che vede imputati i protagonisti della congiura degli uguali e in cui, per la prima volta, è la difesa che accusa, fino alle più recenti teorizzazioni circa la difesa di rottura. Si tratta di quella speciale variante della difesa “politica” organizzata da collettivi di avvocati durante il turbolento periodo della decolonizzazione francese, capace di far giocare la legalità contro la legittimità e la politicizzazione contro la criminalizzazione.

Mi sembra importante sottolineare la rilevanza che Israël assegna allo specchio coloniale: luogo teorico capace di riflettere tanto la debolezza dello stato di diritto, quanto il potere ambivalente del diritto. L’esasperato legalismo degli avvocati dei “terroristi” algerini si rivela una potente sovversione “interna”, capace di generare effetti di imitazione e solidarietà. La giustizia e il processo si trasformano in vere e proprie arene. Nella stessa direzione andranno i sindacati giudiziari e la moltiplicazione di pratiche alternative del diritto: le boutiques del diritto oppure le permanenze non costituiscono forme di delegittimazione del diritto, ma modi per rafforzarne il carattere politico, strumenti a disposizione delle azioni dei movimenti sociali.

Ancora una volta è l’opera di due autori americani – Stuart Scheingold e Austin Sarat – a fornire la cornice interpretativa di questi fenomeni dispersi. Il cause lawyering costituisce infatti un nuovo approccio alla mobilitazione del diritto centrato in massima parte sull’attore e in cui la “causa” agisce come operatore concettuale capace di articolare una costellazione diversa e più comprensiva di pratiche e di attori. Possono così venire a giorno la possibile tensione tra identità politica e professionale dei professionisti del diritto, l’ambivalenza tipica nei riguardi dello Stato, contro cui ci si batte pur essendo inevitabilmente inscritti nel suo registro discorsivo, e le abilità e le conoscenze – insieme locali e generali – che la costruzione di una causa non può non comportare.

Certamente anche questa linea teorica non è immune da limiti, anche onerosi, che Liora Israël ripercorre con grande acribia. I casi di cause lawyering infatti finiscono spesso con far prevalere la procedura sulla causa, producendo, di fatto, più una legittimazione che non una sovversione dello stato di diritto. Si tratterebbe insomma di un metodo ambivalente, in cui, evacuati interesse e ideologia, regnerebbe – come nel caso dei diritti umani – una irenica, generalizzata e mal vagliata intenzione progressista.

Concludendo, Israël ritorna sul punto forse decisivo che il suo testo ha il merito di sollevare, e, insieme, allarga il raggio dell’indagine, offrendo alcuni spunti di riflessione grazie a cui ripensare e pensare altrimenti alcune metamorfosi del diritto che oggi si impongono alla teoria con una forza tale da lasciarla spesso disarmata. In primo luogo, Israël affronta quel fenomeno recentemente battezzato “giuridicizzazione della società”, per cui, sempre più, la richiesta di riconoscimento si traduce in domanda di diritto e una pletora di diversissime questioni storiche, politiche e simboliche attendono di essere risolte attraverso la giustizia. E lo fa impostando la questione secondo quel registro che ha dato il tono all’intero libro: il costante riferimento al rapporto tra diritto e legittimità politica, la tensione – tipica degli usi contestatari del diritto – tra legalità e legittimità. Se infatti il diritto è valido in virtù di una legittimazione democratica, come contrastarlo validamente?

Le riposte, certo, non mancano – l’appello a un altro diritto e dunque il gioco sulla gerarchia delle fonti oppure l’appello a principi diversi e diversamente legittimati non sono che esempi tra molti –, ma ciò che le lotte per i “diritti” mettono sotto cauzione è qualsivoglia idea di legittimazione unidimensionale del diritto. Si danno, insomma, forme e modi diversi per contestare, pur rimanendo all’interno di un registro giuridico. Certo – mette in guardia Israël – ciò comporta un fondamentale rischio: quello di legittimare – contestandolo attraverso quel diritto che è il suo linguaggio – un regime ingiusto, concorrendo così a una involontaria legittimazione. È tuttavia questa la cifra propria degli usi contestatari del diritto: il gioco – pericoloso come tutti i giochi che si rispettino – tra legalità e legittimità, che, sfruttando l’ambivalenza di un necessario e non aggirabile rapporto con lo Stato, non può non dare luogo a una serie intrecciata di effetti incrociati e doppi di legittimazione e de-legittimazione. Questa prestazione tipica del diritto si rivela esemplarmente nei momenti di transizione da un regime a un altro, laddove si imponga la necessità di stabilire una nuova legalità e di scegliere il modo per giudicare i responsabili del regime precedente.

L’idea di leggi retroattive confezionate al fine di punire atti considerati legali in un ordinamento la cui vigenza sia cessata, introduce a una fondamentale novità nell’uso del diritto che oggi va prendendo sempre più piede: la punizione del passato e la prevenzione del futuro. La retroattività domina e presiede alla moltiplicazione di vie d’uscita giuridiche da crisi, guerre e dittature. La retorica dei diritti umani e l’inflazionato concetto di imprescrittibilità gettano sul tappeto la questione, spinosa, della temporalità della giustizia e del rapporto tra memoria e giustizia. Come nota Israël, il diritto è sempre più confrontato con questioni simboliche. E, in questo senso, il diritto penale internazionale si rivela uno speciale laboratorio, vera e propria arena globale giudiziarizzata. Ma anche l’internazionalizzazione del ricorso alla giustizia porta con sé ambivalenze e limiti. In primo luogo resta tutta da provare e perciò da costruire una reale indipendenza degli organi di giustizia dalle ingerenze degli Stati. Inoltre, sono ancora molte le difficoltà che l’arma del diritto tradisce quando si tratti di combattere crimini ecologici ed economici.

Laddove, almeno in apparenza, le cose sembrano funzionare meglio è anche lì dove massimi sono i problemi. Si tratta del ricorso al diritto nella gestione del conflitto politico, che ha imposto, allo stesso tempo, una nuova centralità al ruolo della vittima, una incipiente e ambigua trans-nazionalizzazione delle procedure, e, infine, la diffusione del discorso sulla giuridificazione della società, perlopiù strumentale laddove l’eccesso di giuridificazione è trasformato in un mezzo per allontanare gli utenti da dispositivi che potrebbero essere usati con profitto. Come si vede, ciascuno di questi effetti non fa altro che reduplicare quel carattere ambivalente che costituisce la marca e lo stigma dell’arma del diritto.

La lettura del volume di Liora Israël è un’occasione che i filosofi – spesso inconsapevoli custodi di un’immagine del diritto che la sociologia e la storia del diritto hanno nel frattempo minuziosamente decostruito – farebbero male a perdere. Chissà infatti che al necessario esercizio di igiene concettuale non segua anche l’elaborazione di strategie all’altezza dei tempi. Ma se forse è ancora presto per immaginare dei filosofi armati di diritto, ci si può limitare, più sobriamente, ad augurarsi che abbiano almeno a disposizione nella loro lingua un’arma in più – questo libro – in un paese che ha conosciuto, in un tempo che è reso più lontano dalla miseria del presente, l’uso alternativo del diritto e altre simili e pericolosissime armi.

 

Israël, Liora, L'arme du droit, Les Presses de Sciences Po, Paris 2009, pp. 137, € 12,00

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