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Lisa Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos

 

 

 

 

recensione di Sofia Ranzato

 

Il libro di Atwood Wilkinson ha soprattutto il merito di richiamare l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali dell’opera parmenidea non sempre tenuti nella dovuta considerazione dagli studiosi. La riflessione dell’autrice prende infatti le mosse da un semplice dato di fatto: Parmenide ha composto il suo scritto utilizzando la stessa forma espressiva dei poemi omerici. Per capire il pensiero parmenideo, quindi, è fondamentale comprendere il valore  della lingua della poesia epica e il suo ruolo all’interno della cultura greca arcaica.

Presupposto fondamentale per capire la lingua di Omero è, secondo l’autrice, considerarla il risultato di una composizione orale. Per ben intendere l’opera omerica – ma anche quella dei poeti-filosofi Senofane e Parmenide – è necessario comprendere il modo in cui oralità e scrittura interagivano nella cultura greca arcaica, una maniera molto diversa rispetto a quella in cui operano in una civiltà così fortemente fondata sulla materialità del testo scritto come la nostra.

In tale contesto Wilkinson riutilizza la nozione di sung speech elaborata alcuni anni prima da Marcel Detienne nel suo saggio I maestri di verità nella Grecia arcaica: un tipo di discorso, nato all’interno di una cultura fondata essenzialmente sulla comunicazione orale, che non si limita a rappresentare la realtà, ma interviene direttamente su di essa.

I primi due capitoli del volume sono dedicati a capire il valore e il funzionamento della lingua omerica. L’autrice sottolinea la prima difficoltà in cui si imbatte chi cerca di portare avanti questa ricerca e cioè il fatto che i poemi omerici, da noi considerati come una delle più importanti testimonianze di poesia orale, sono accessibili solo attraverso un testo scritto. Appare pertanto difficile comprendere come tali opere siano state composte e recepite dal pubblico dell’epoca. L’autrice, quindi, riconsidera alcuni degli importanti risultati a cui, nei precedenti decenni, sono giunti gli studiosi di Omero. La poesia omerica è frutto di un’interazione immediata tra autore e pubblico; l’aedo componeva la sua opera nello stesso momento in cui realizzava la sua performance. Il contenuto della sua poesia non era creato ex novo, ma attingeva a un patrimonio di conoscenze condivise nella forma di racconti tradizionali: il mythos. Tale forma espressiva era del resto scandita dal ritmo regolare dell’esametro dattilico e dalle ‘formule’ che occupavano il verso.

 La tradizionale definizione che Parry dà di ‘formula’, come «gruppo di parole regolarmente impiegate, nelle stesse condizioni metriche per esprimere una certa idea essenziale» (M. Parry, L’Épithète traditionelle dans Homère. Essai sur un problème de style homerique, Paris 1928), viene utilizzata dall’autrice per indicare la stabilità della tradizione cui autore e pubblico della poesia epica fanno riferimento. La formula “pie’ veloce” viene infatti riferita ad Achille sia quando l’eroe agisce nel campo di battaglia, che quando sta seduto. La ‘formula’ esprime così la natura inalterabile di una cosa o i tratti distintivi di una persona, a prescindere dall’azione puntuale in cui è coinvolta (p. 22).

L’aedo, quindi, condivide con il suo pubblico un patrimonio di conoscenze cui attinge grazie all’azione divina della memoria. Il poeta omerico, infatti, non è considerato come autore individuale della sua opera, ma come soggetto ispirato dalla Musa divina: si distingue dagli  hoi polloi perché più vicino agli dèi, rappresentando la voce attraverso cui cantano le Muse (p. 29). Il termine mousa indica allo stesso tempo il “discorso cantato” prodotto della composizione aedica e la divinità che lo ispira (p. 30).

Alla luce del valore di questo “discorso cantato”, composto per essere ascoltato piuttosto che letto, l’autrice riconsidera le opere poetico-filosofiche di Senofane e Parmenide, partendo dal presupposto che questi autori «are more closely and conceptually associated to oral poetry than to Plato and Aristotle, and that this association might be the basis of Xenophanes’ and Parmenides’ philosophical significance» (p.6).

Secondo l’autrice, infatti, l’uso che Senofane fa della lingua epica non può che ridimensionare gli aspetti del suo pensiero considerati dagli studiosi come i più antitradizionali e progressisti.

Nel fr. B 32, ad esempio, in cui il poeta-filosofo depersonifica l’arcobaleno, opponendo alla visione tradizionale che lo concepiva come la dea Iris la sua nuova rappresentazione come una “nuvola purpurea, scarlatta e verde  a vedersi”, l’uso del termine idesthai, così diffuso nella poesia epica, sarebbe una spia del fatto che Senofane non si pone in netta opposizione con questa tradizione e che, pur deantropomorfizzando l’immagine dell’arcobaleno, non priva la natura della sua dimensione divina (p. 50).

È pur vero che idesthai è un’espressione piuttosto comune nella lingua greca e che, peraltro, il fatto di concepire la natura come divina, nulla toglie al carattere fortemente critico e innovativo dell’osservazione di Senofane secondo cui l’arcobaleno non andrebbe concepito come una divinità o come un segno mandato da un dio, ma come un elemento naturale indipendente rispetto a qualsiasi persona divina.

Wilkinson riconsidera, nel terzo capitolo, anche altri frammenti senofanei a noi giunti, interpretando la figura del filosofo come poeta itinerante che fa ampio uso del “discorso cantato”.

Con l’affermarsi della scrittura, e con il delinearsi dell’autore di un’opera letteraria o figurativa come un’individualità vera e propria che pone la sua firma o un sigillo distintivo sulla sua opera, il discorso inizia ad assumere nuovo valore e nuove forme. L’autore si sente creatore della sua opera e il linguaggio da performativo, con presa diretta sulla realtà, inizia ad assumere un carattere rappresentativo e descrittivo.

All’interno di questo passaggio decisivo nella storia del linguaggio e della composizione poetica, si inserisce l’attività di Parmenide. Wilkinson assume come certo il fatto che il poema di Parmenide, pur composto per iscritto, sia stato recitato davanti ad un pubblico educato al “discorso cantato” della poesia omerica ed esiodea. Nell’analizzare l’opera dell’eleate, l’autrice invita subito a considerare le sezioni in cui viene tradizionalmente diviso il poema parmenideo –  il proemio, “la Via della verità”, “la Via dell’apparenza” – non come realtà distinte, ma nel loro insieme (p. 69).  Si noti, però, che le espressioni “Way of Truth” e “Way of Seeming” con cui Wilkinson definisce le ultime due parti del poema, non trovano alcun riferimento diretto nel testo di Parmenide e sono frutto di un’interpretazione dell’autrice, senza che venga fornita alcuna argomentazione al riguardo. Secondo Wilkinson, la netta distinzione tra le tre sezioni e la tendenziale svalutazione da parte degli studiosi della prima e della terza in favore della seconda sarebbero legate all’antico preconcetto di una netta distinzione tra mythos e logos, assolutamente non riscontrabile nell’opera parmenidea.

Ciò che, secondo l’autrice accomunerebbe le tre parti al di là della tradizione distinzione è la generale ostilità di Parmenide verso l’attribuzione dei nomi. Nel proemio, infatti, i due soggetti principali dell’azione, il kouros e la dea, rimangono deliberatamente anonimi. Anche la meta del viaggio del giovane si caratterizza per indeterminatezza: l’unico dato certo è che il protagonista attraversa la “porta dei percorsi di Giorno e di Notte”, per raggiungere – sembra – un luogo di assoluta indistinzione. Per inciso, però, Wilkinson osserva – peccando un po’ di incoerenza nel suo ragionamento – che, se si accetta l’identificazione che Heidegger propone della dea come Aletheia o quella di Mourelatos della dea come Peitho, se ne può concludere che «for just as Mousa indicates a divine power and the language and materials of “sung speech”, Peitho indicates a divine presence and the result or effect of that presence in speech: truth» (p. 88).

Nell’ascoltare il discorso veritiero, invece,  secondo l’autrice, a colpire il pubblico parmenideo sarebbe il reiterato uso della forma esti – non così comune nella poesia epica, secondo quanto osserva Havelock – senza soggetto o come esso stesso oggetto di un discorso. Wilkinson invita quindi gli interpreti a non cercare un nome per la dea, o un soggetto per il verbo esti, bensì a constatare che, nel poema, la forma “è” è ciò che si oppone all’attribuzione di qualsiasi nome e che quindi il fine di Parmenide è quello di insegnare a pensare resistendo all’impulso di dare nomi (p. 97). Infatti, nel luogo dove si trova la casa della dea le cose sono indistinte, in modo tale che appare impossibile attribuirgli dei nomi: lì ogni cosa è, tutta insieme, indistinguibile, senza nascita e senza morte come l’ “è” oggetto del suo discorso (p. 101).

Secondo Wilkinson, Parmenide non critica i mortali per un cattivo uso dei loro sensi, ma per il modo scorretto di attribuire nomi alle cose, a cominciare dall’originaria distinzione tra luce e notte da cui prende le mosse la cosmologia che occupa l’ultima parte del poema. La descrizione del cosmo che la dea fa, nella seconda parte del suo discorso – osserva Wilkinson nel suo capitolo conclusivo “The Way It Seems” – sembra comunque mantenere una sua plausibilità, essendo superiore a molte altre (p. 106).

L’uscita di questo saggio è importante nella misura in cui ripropone alcune problematiche non sempre tenute nella dovuta considerazione da parte degli studiosi, come il rapporto di Senofane e Parmenide con la tradizione epica e con la sua particolare lingua, la loro relazione con forme di composizione e di fruizione orale della poesia, la necessità di superare la rigida distinzione tra mythos e logos.

Bisogna peraltro osservare che il lavoro di Wilkinson sembra basarsi prevalentemente su studi di letteratura secondaria, più che su di una lettura diretta delle opere degli autori di cui tratta, non riuscendo così a raggiungere risultati originali, dotati di un solido fondamento. Per questo motivo il saggio, pur facendo riferimento ai risultati molto importanti di alcuni studi precedenti, si presenta, nella sostanza, piuttosto fumoso e confuso. Il testo non sembra inoltre essere stato sottoposto a un’accurata revisione formale prima della stampa, come risulta da numerosi refusi – Walter Burkert viene ripetutamente citato come Burkett – e dal fatto che nella bibliografia non siano registrati tutti i lavori cui si fa riferimento nel corso dell’opera.

 

Atwood Wilkinson, Lisa, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum, London-New York 2009, 176 pp., € 108,60

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