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Avital Ronell, Stupidity

 

 

 

recensione di Enrico Schirò

 

Sarebbe un errore asserire che l’Italia è una nazione metafisica? A parte l’aver appena fatto uso di ben quattro concetti forti del pensiero metafisico occidentale (errore, asserzione, nazione, metafisica), si dovrebbe poter rispondere negativamente alla questione posta. Immaginario, storicismo e melodramma abbondano da noi – per non parlare del cristianesimo. A ogni modo, certo è che il decostruzionismo non ha messo radici nelle università italiane e nelle case editrici nazionali. Derrida non ci manca; ne abbiamo in grande copia e forse molti non ne vorrebbero sapere. Il resto, però, tentenna. Non solo in Italia sono state scritte ben poche ricerche autonome e originali inscrivibili nell’orbita decostruzionista ma anche chi da altrove (più a nord delle Alpi, più in là oltreoceano) impugna la penna e ‘firma’ non arriva a toccare stabilmente il suolo italico. Vogliamo parlare di Ego Sum di Jean-Luc Nancy, pubblicato da Flammarion nel 1979 e tradotto in italiano per i tipi di Bompiani solo nel 2008? Oppure possiamo prendere il caso ‘Avital Ronell’: venticinque anni di decostruzionismo passati pressoché inosservati in Italia.

Che si tratti si una perdita cospicua o da poco, non può essere solo una questione di gusto a meno che non si voglia speculare sulla facoltà di giudizio. Certo la critica metonimica – letto uno, letti tutti – è sempre legittima e altrettanto valida è la constatazione secondo cui i testi decostruzionisti sfidano le stesse possibilità della traduzione. Tuttavia si può far notare, en passant, che i decostruzionisti statunitensi – intendendo coloro che sono locati negli U.S.A. – non si peritano di citare le opere di insigni colleghi francesi direttamente dalle traduzioni in inglese, senza punto voler discutere delle loro competenze linguistiche. Inoltre, la critica metonimica per assurdo ci destina alla manualistica e alla biblioteca dei classici, implicitamente condannando a morte l’editoria tutta; motivo per cui difficilmente le si può dare spago.

Uscire dal testo, anche laddove impossibile – per un decostruzionista DOCG si tratta di un’impossibilità strutturale dell’animale –, è certamente doveroso. Bisogna pur prendere una boccata d’aria fresca. Ma per farlo occorre almeno aver stazionato nel testo. Inoltre il decostruzionismo si è disseminato per gran parte della cultura accademica statunitense degli anni ’80 e ’90 e privarsene significa fare a meno di un pezzo cospicuo di pensiero filosofico contemporaneo. Per farla breve si tratta dell’ennesimo drammatico ritardo di ricezione della cultura italiana. Ma è anche in gran parte un ritardo ‘selezionato’, perché la storia recente del pensiero filosofico italiano ha avuto delle parentele con l’opera di Derrida e, caduto in disgrazia quello, è venuto meno anche il seguito.

In ultima analisi si tratta di un classico caso di ottusità, o per entrare in argomento, di ‘Stupidity’. Questo il titolo del poderoso (meta)testo di Avital Ronell pubblicato da University of Illinois Press nel 2001 e tradotto in italiano per i tipi della UTET nel 2009.

Il duplice intento del testo è retoricamente dichiarato dall’autrice nell’introduzione: delimitare il senso di un’esperienza personale della stupidità e rispondere all’appello a pensare le condizioni trascendentali della stessa lasciatoci da Gilles Deleuze in eredità. Il che offre un gancio per presentare in breve l’autrice – o come lei preferirebbe definirsi ‘l’operatrice del testo’. Avital Ronell figlia di diplomatici israeliani e nata a Praga, è una filosofa e comparatista decostruzionista. Ha studiato a Berlino con Jacob Taubes, a Princeton e infine a Parigi con Jaques Derrida e Hélèn Cixous.

La sua personale esperienza della stupidità, quindi, non è altro che quella «di un’immigrante straniera che non capiva l’inglese, ma che si dimostrava altrettanto stupida in matematica» (p. XLIX): la stupidità dell’alunna. Ma deve essere stata questa un’esperienza solida e duratura di vacillamento. Ronell infatti confessa: «tuttora non riesco a capire esattamente la lingua colloquiale e, quando qualcuno mi rivolge la parola, può capitarmi di somatizzare il mio imbarazzo, prendendomi un’orticaria o riagganciando il ricevitore telefonico troppo in fretta, interrompendo la comunicazione all’improvviso, senza aver compreso granché di quanto mi è stato appena detto» (ibidem).

Il problema della stupidità, afferma Ronell, è che da un lato se ne può mettere in discussione la stessa esistenza – «non abbiamo forse a che fare in tutti questi casi con garbugli fatti di repressione, azioni incompiute, errori, cecità?» – dall’altro «la stupidità può e deve essere descritta» (p. 3). Si tratta di qualcosa che contemporaneamente non esiste (almeno in sé) e di cui non si possono fornire resoconti attendibili. Cerchiamo di capire il senso di questa impossibilità. Posta in questi termini la stupidità non è diversa da un unicorno o da un cherubino: immaginabile, descrivibile e tuttavia inesistente.

Una prima questione da mettere in evidenza è la relazione che la stupidità intrattiene con l’etico e con il politico. Nel mondo greco non si poteva «considerare la stupidità come un elemento appartenente alla sfera politica, proprio perché essa denota ciò che manca di dimensione politica: essere stupidi significa essere-fuori-dell’ambito-politico. […] Lo stupido è incapace di vivere all’interno di una comunità politica» (pp. 8-9). In termini arendtiani potremmo dire che stupido non è chi, alla resa dei conti del giudizio, si dimostra tale, ma chi, privo del giudizio, non ha mai cominciato a fare i conti (né tantomeno a contare positivamente nella/sulla comunità politica). Eppure «Heidegger soleva adoperare la parola ‘stupidità’ soltanto alludendo al periodo del suo attivo coinvolgimento politico, la Dummheit di cui diede prova negli anni 1933-1934» (p. 8). La stupidità heideggeriana non sarebbe altro che la sconsideratezza politica. Ora, è noto come Heidegger cercasse di ridurre qualsiasi contenuto etico a un portato ontologico, un effetto di una qualche struttura dell’essere. Seppure le due cose abbiano delle parentele – stupidity e Dummheit – la distinzione si insinua laddove la sconsideratezza confessata da Heidegger può sempre essere letta come «un portato intrinseco all’irreparabile fatticità dell’esistere», mentre «la stupidità esige un’etica» (p. 10).

Inoltre la stupidità ha a che fare con la conoscenza – per non dire la scienza – e con l’infinito. Da una parte «la stupidità non conosce limiti» (p. 11), dall’altra quel che esibisce è una brava sicurezza di sé che fa sfumare irrimediabilmente il confine tra una vita beata e una vita beota. Il risultato – ottenuto mettendo sotto la lente d’ingrandimento Bonheur bète di Henri Michaux – è che la stupidità si dimostra più risoluta dell’intelligenza la quale, incarnata nell’io narrante, non può che arretrare balbettando di fronte alla mole matematicamente sublime dell’ottuso: «Non ha alcun limite, non… è talmente sicuro da farmi disperare… Non ha affatto limiti, non ha…, no» (p. 10).

Superamento del limite e sicurezza di sé, ecco i caratteri della stupidità; molto simili del resto a due predicati tipici della scienza moderna. La stupidità in effetti si pone all’opposto della scienza nella sua pretesa di assolutezza – ed è la narrazione cristiana della stupidità esaminata da Ronell attraverso Cusano e Nancy (pp. 14-17) – ma ne è al contempo il più temibile alter ego. ‘Sciocca è la pretesa di comprendere il tutto’, dichiarerà la Chiesa; ‘meglio rifiutare la saggezza del mondo’, avevano previsto le Scritture. Ecco dunque il labile margine che separa fede e sapere. Del resto questo stupido ronelliano non assomiglia alla Coscienza trascendentale descritta da Lévinas in tutte le sue opere?

In un lungo confronto con il principe Myskin e gli altri personaggi che popolano l’universo narrativo dell’Idiota di Fedor Dostoevskij, la decostruzionista americana dipana la matassa degli slittamenti semantici che ruotano attorno al lessema ‘stupidità’ e che pure non afferiscono strettamente alla sfera cognitiva del vivere umano.

A prima vista la stupidità è affare dell’intelletto, o tutt’al più della ragione – non è anzi qualcosa che sbanda di continuo tra un intelletto che kantianamente frena l’inconcludente serialità della ragione e una ragione che hegelianamente rimprovera l’intelletto per le sue astratte distinzioni? – e nulla sembra condividere con tutto ciò che esula dalla cognizione. Anche volendo adottare una prospettiva sociologica o psicosociale che implichi di necessità il meccanismo comparativo del giudizio e quindi tutto l’armamentario teorico dell’interazione pratica tra agenti, la stupidità verrebbe definita da un giudizio sulle prestazioni cognitive dell’altro; giudizio che figurerebbe semplicemente come portato dell’interazione. In breve il giudizio di stupidità implicherebbe l’interazione tra agenti solo perché la struttura cognitiva stessa del giudizio si appoggia sulla relazione. Una facoltà di giudizio in grado di fare a meno della sensibilità e dell’interazione potrebbe forse individuare la stupidità a colpo d’occhio rimanendo chiusa nella sfera immanente dell’intelligibilità (ma a quel punto sarebbe qualcosa di completamente differente da ciò che comunemente chiamiamo giudizio).

Ma non è su questo punto ai margini dell’intelligibile che Avital Ronell si sofferma. Il suo sguardo è più che altro orientato sull’opacità intrinseca a qualsiasi attribuzione liminare alla stupidità (fesso, imbecille, scemo); opacità che trova il suo exemplum nella corporeità piuttosto che nel punto cieco del soggetto teoretico (o nel dislivello comparativo). Stupido a chi? Al corpo.

C’è una stupidità del corpo, o addirittura una stupidità ottusa che è il nostro corpo, nella quale siamo pericolosamente invischiati dalla nascita e mediante la quale siamo esposti a una «perenne minaccia di disorientamento di senso» (p. 207). Questo limite che il corpo esibisce pericolosamente è quello che separa la nostra localizzazione dallo sfaldamento del mondo stesso. «L’idiozia» scrive Avital Ronnel «si materializza in una sorta di stilizzazione corporea negativa […] ha a che fare con il dato quasi esistenziale consistente nell’essere bloccati in un corpo […] nel fatto che il corpo rivendica dei diritti su di noi» (ibidem).

Qui la critica decostruzionista esce per un momento dalle prigioni del testo – da cui altrimenti è fin troppo avvinta – e recupera una posizione quasi ‘esistenzialista’ che per il lettore, come per il giovane Deleuze, non può che essere una, seppur breve, ora d’aria. Myskin è infermo e per questo motivo dichiara di non potersi sposare. Ora, quest’infermità lungi dall’essere una diminuzione del corpo ne è piuttosto il surplus. Se il corpo è l’opacità stupida a cui siamo legati e che nel legarsi a noi ci apre un mondo la cui intelligibilità e stabilità pure mette in pericolo, il corpo infermo è un corpo elevato alla potenza.

È nel corpo infermo o più in generale nel corpo malato che la stupidità si fa sentire come interruzione radicale del campo epistemico – e quindi non come semplice variazione cognitiva: «Quando è il nostro corpo a far sentire quanto può valere una sua ingerenza nei nostri affari […] non c’è più nulla da sapere al riguardo (anche se ci sono, come è ovvio, cartelle cliniche e anamnesi, analisi comparative, dati e informazioni, prognosi e diagnosi; tutti balbettii cognitivi dinanzi all’incognita della malattia)» (p. 209). Il corpo infermo e malato irrompe nel nostro orizzonte di vita come una totale contingenza e al contempo marca in maniera indelebile – ecco l’esistenzialismo accanto alla descrizione letteraria della malattia e del suo decorso (pp. 209-210) – la nostra ‘gettità’ (Geworfenheit). Che ne è del sapere e di noi come soggetti-del-sapere? Non solo la conoscenza continua la sua autonoma parata, ma ha anche il tempo di tornare indietro per farsi beffe di noi «facendoci scoprire aree del nostro corpo che non sospettavamo neppure di possedere» (p. 211). Recuperare questa ‘cognizione del dolore’ al sapere e alla scienza vorrebbe dire giustificarlo e dargli un senso al di là della sua datità indessicale.

Sulla questione della ‘non-conoscenza’ del corpo – la sua opaca stupidità – e sul senso del dolore e della malattia la comparatista praghese ritorna, forte delle riflessioni prese a prestito da Jean-Luc Nancy: «Il corpo non sa; però non è neanche ignorante. […] Viene da un altrove, da un altro luogo, un altro regime, un altro registro, che non è ancora quello di una conoscenza ‘oscura’, o quello di una conoscenza ‘pre-concettuale’, o ‘globale’, ‘immanente’ o ‘immediata’» (p. 218, citato nel testo da J.-L. Nancy, The Birth of the presence, Stanford University Press, 1993, p. 193).

Come scrive la Ronell, dunque, «il corpo evade le regole della conoscenza che pretenderebbe di coglierlo per ciò che è, sezionandolo e concettualizzandolo» (ibidem). La costituzione del corpo avviene a partire da un’esclusione dal registro della conoscenza che non è ovviamente il medesimo del sapere. Ci sono ovviamente molti saperi del corpo, potremmo dire, anzi, che venuto meno il corpo di Dio – il corpo del sacrificio – si assiste a un proliferare infinito di saperi del corpo, ma di questo essere grezzo non si dà autocoscienza. Nonostante ciò e recuperando l’operazione heideggeriana che distingueva il ‘pensare’ dalla pratica della filosofia, Nancy può affermare che il corpo pensa e che il pensiero stesso sia un corpo (p. 219).

Se del corpo non si dà autocoscienza e se tutti i saperi che gli ruotano intorno girano a vuoto attorno all’assenza del corpo di Dio, si potrebbe pensare che, altrimenti, si dia almeno una comprensione del corpo e in particolare del corpo malato e dolente o più in generale del dolore. Ma Nancy avverte che qualsiasi tentativo di dare una giustificazione al dolore rientrerebbe legittimamente (e quindi in maniera illegittima dal punto di vista di chi si tiene ai margini della metafisica) nella storia della metafisica cristiana. Cionondimeno, il dolore è anche lo scenario di un «balenio tanto paradossale quanto istantaneo […] una momentanea intuizione» (p. 223) in cui è possibile, stando a Nancy che presta voce a Ronell, «qualche cosa di simile a una pura attestazione di essere».

Patior, ergo sum’ si potrebbe dire; senza perciò impegnarci in una metafisica della sostanza dell’Ego. Del resto sarebbe impossibile perché «nell’istante del dolore non sono altro, non posso essere altro che l’atroce trafittura che mi sta facendo a pezzi così da non rendermi neppure più un io, questa follia dolorosa» (ibidem). La scena paradossale che Nancy (o il corpo) ha architettato per noi è quella di una fugace attestazione di sé nel momento in cui il dolore ci lascia a corto di parole e «la finzione dell’autocontrollo collassa improvvisamente» (p. 224). È un’attestazione priva di parole che non si limita ad interrompere la parole ma restituisce il parlante addolorato alla sua dimensione pre-linguistica (p. 440).

Il nostro corpo quindi, schiaffeggiato e disarcionato come quello di Don Chisciotte, «testimonia della nostra estraneità al mondo» (p.201). Stupidi sono l’impossibile adattamento e l’imperfetta connessione tra corpo e mondo, di cui il corpo, appunto, è stupida metonimia. Contrariamente alla scomparsa cartesiana del corpo – destinato nella macchina del cogito a fornire semplicemente delle pezze d’appoggio all’Ego – nell’ex-sistenza di Myskin (e di Don Chisciotte) si avranno solamente «gli infiniti allestimenti di un’esistenza risolutamente corporea» (ibidem).

Ecco il legame, celato tra le pieghe di questo meta-testo, tra la nostra evoluzione di animali parlanti e la stupidità. A essere stupide non sono solo le nostre occasionali prestazioni cognitive, ma il nostro strutturale legame materiale con il mondo. Un legame che è tutt’altro che trasparente, ma anzi distratto, obliquo, impossibile. Il corpo nella sua stolidità ce lo ricorda di continuo e il corpo addolorato addirittura ci costringe, facendoci retrocedere al di qua del linguaggio, a ricostituirlo come ripercorrendo il nostro cammino evolutivo.

Si è detto della specularità corporea tra Don Chisciotte e Descartes: l’uno impegnato in una continua negoziazione con il suo supporto, l’altro deciso alla sua esclusione metafisica. Sempre Jean-Luc Nancy offre l’occasione a Ronell di prendere in considerazione la distinzione tra lo statuto della scrittura letteraria e quello della scrittura filosofica. Parallelamente al destino dei nostri due eroi, l’una si scopre piena di corpi, laddove l’altra non ha fatto altro per tutta la metafisica – un affaire ormai datato – che escluderli, metterli da parte, eliminarli. Un fatto questo che aggiunge evidenza alla constatazione per cui la letteratura si è sempre preoccupata della stupidità colmando il vuoto (desiderato) della filosofia e della scienza (p. 217).

Il testo prosegue lungamente attraverso confronti incrociati – scontri piuttosto che incontri – tra la studiosa decostruzionista e Musil, Kant, Wordsworth, Kierkegaard, de Man e quant’altri. Impossibile fornirne un resoconto breve ma dettagliato. Alcuni di essi sono molto suggestivi; altri penosamente prolissi e accademici. Tuttavia, se c’è un motivo valido per leggere questo libro e dare credibilità alla scrittura decostruzionista è sicuramente, al di fuori delle trappole testuali, l’idea di una strutturale stupidità del corpo. Non solo quest’ottica precipita il lettore direttamente dal piano retorico alla pena dell’esistenza (ricordandoci se non Sartre, certamente il primo Lévinas), ma ci offre più che uno spiraglio per uscire finalmente all’aperto. Noi, animali detestabili.

 

Ronell, Avital, Stupidity, UTET, Torino 2009, pp. 461, € 22,00

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