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Pianissimo - Rubrica di poesia e critica artistico-letteraria

EDITORIALE
La poesia contemporanea è afflitta oggi dalla mania della scrittura e della produzione. Mai come negli ultimi dieci anni si è avuto un proliferare di riviste, cartacee e telematiche, di associazioni culturali, di caffè letterari, di librerie, volti a diffondere e a pubblicare poesia. I piccoli e medi editori si sono poi moltiplicati a dismisura, fino a divenire del tutto indiscernibili nella loro specificità e nelle loro politiche culturali. Da questo sovrabbondare di voci non sono derivati tuttavia, salvo alcune eccezioni significative ovviamente, molti contributi di rilievo, sicché le opere che si possono considerare tali appaiono spesso soffocate dal mare magnum di pubblicazioni mediocri, di readings nei quali il pubblico è composto dai soli invitati a leggere, da comunicati stampa altisonanti che non corrispondono affatto all’importanza o al valore degli eventi. Questo fenomeno, per il quale viene da citare Giovenale che dice che in nessun luogo si è al riparo da poeti vanitosi che vogliono leggere i propri versi e compiacersi del pubblico, è derivato certamente dalla più facile accessibilità alla pubblicazione. Con una cifra vicina ai mille euro, chiunque può garantirsi una silloge poetica e provare così l’ebbrezza di considerarsi un autore. Nella stragrande maggioranza dei casi un filtro sulla dignità dei testi proposti, data anche la scarsità dei finanziamenti pubblici destinati all’editoria indipendente, non esiste. Ne consegue dunque una miriade di testi nei quali salta immediatamente all’occhio l’ingenuità. A mancare, in senso forte, è proprio la tecnica poetica, per cui spesso non si sa tenere il registro che si è scelti e si precipita o nel minimalismo epigone di Satura o addirittura in un vanaglorioso neo-ermetismo. La critica poetica, per di più, sembra ormai esangue, gira e rigira parafrasando con termini complessi i testi e pronuncia quasi sempre asserzioni epocali e profetiche sul destino e sulla missione della letteratura. Ma non vi sono poeti significativi? Assolutamente sì, e forse ci vorranno come sempre accade almeno cinquant’anni per apprezzarne la statura: oltre ai nomi noti di Maria Luisa Spaziani, Giuseppe Conte, Valerio Magrelli, Antonella Anedda, Maria Grazia Calandrone, Guido Ceronetti, Dante Maffia e altri, vi è certamente una schiera di poeti nati negli anni Settanta – penso a Luca Benassi, Elena Ribet, Daniel Cundari, Stelvio Di Spigno, Elisa Biagini, Serena Maffia, Martina Ippolito ecc. – di provato valore. Forse, per dar corpo a queste voci, sarebbe opportuno tacere, sarebbe opportuno lasciar emergere e valutare con più tempo e meticolosità quanto è stato proposto e fare in modo che non venga sommerso. Sarebbe quasi necessaria, per una selezione, una moratoria della poesia, perché non diventi industria di carta da macerare e di danni ecologici. Eppure, un tale auspicio non avrebbe senso. Non si può fermare il mercato e tanto meno, per fortuna aggiungiamo, la libertà di scrivere. Più opportuno diventa allora un lavoro di nicchia, sobrio, teso a leggere e a valutare, senza mai pretendere di avere una chiave di lettura assoluta, del resto resa inaccessibile dalla frantumazione dei linguaggi e dei paradigmi poetici e non. Accanto a questo lavoro, per il quale si proporrà, attraverso l’analisi di alcuni testi, un poeta contemporaneo ogni mese, si ritiene necessario il recupero dei classici e della loro costitutività per il presente. Proprio la mancanza di una formazione storico-letteraria appare a chi scrive una delle cause più evidenti della decadenza di gran parte della produzione poetica. Accanto ad un contemporaneo, si presenterà dunque un classico, inteso come un qualsiasi autore dal Duecento al Novecento che sia parte del canone letterario condiviso. L’analisi e le considerazioni che si proporranno non avranno un carattere scientifico o accademico, la natura della rubrica infatti non lo consente né se lo augura, bensì critico e propositivo. L’intellettuale e il poeta infatti, soprattutto in un periodo di crisi, non possono esimersi dal dovere di indicare una direzione o di cercarla con tutte le proprie forze. La noia per il rumore e il desiderio del silenzio, in ultima istanza sono sempre superati dalla doverosità del dire, Vae de te tacentibus! diceva Agostino. Dover dire, però, non significa urlare o profetare, significa far propria la dimensione della contingenza e adoprarsi in essa con l’umiltà di chi fa propria la crisi epistemologica degli ultimi cento anni. In questa dimensione, si parlerà «pianissimo», come Sbarbaro, forse troppo oscurato dalla gloria dei suoi successori, sperando di incontrare se non l’interesse, almeno la buona disposizione dei lettori.

Pietro Secchi

 
 
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